
Disincanto fantasyentifico – Matt Groening racconta per Netflix
Su Netflix, finalmente, la parte prima della seconda stagione di Disincanto, serie animata di Matt Groening, creatore dei celebri Simpson e Futurama. Su Birdmen abbiamo, colpevolmente, parlato solo della prima parte della prima stagione, lasciatici a un cliffhanger senza precedenti. Oppure abbiamo inserito il prodotto nel grande panorama dell’animazione seriale, nel nostro ultimo cartaceo. Mi sembra sia giunto il momento di recuperare.
Però non posso avventurarmi in una recensione, non in senso stretto. Preferisco aspettare la conclusione dell’arco narrativo, sempre se ci sarà. Per me, vi garantisco mano sul cuore che ne vale la pena, che la serie, pur breve (10 episodi per parte, 30 fino ad ora; da venti minuti l’uno), è complessa, stratificata, ma sono banalità di fronte a un autore del genere.

Piuttosto, in breve, vorrei mettere in luce un aspetto: con Disincanto, Matt Groening si emancipa dal modello antologico dei Simpson e di Futurama per abbracciare completamente e con devozione il racconto lineare. In altre parole, da episodi autoconclusivi con un filo rosso contestuale e ambientale che li lega si passa a una narrazione serrata.
Nei Simpson la narrazione non ha una temporalità e una spazialità coerente – in sé, cioè autocoerente, poiché in fondo, a parte il giallo della pelle (per prossimità a una centrale nucleare?) è perfettamente in coerenza solo col tempo e con lo spazio fuori dallo schermo. I Simpson non si raccontano, non evolvono (se escludiamo episodi di alta narratività, per esempio la morte di Maude Flanders, ascrivibile forse al desiderio di una più approfondita caratterizzazione emotiva del personaggio di Ned) ma parodizzano lo spettatore, lo raccontano prendendosene gioco e quindi con lui crescono, dal 1987.
In Futurama l’appoggio al genere “consolidato” della fantascienza inquina il racconto antologico fin da subito, perché il genere informa senza rimedio la costruzione del mondo, l’universo, e ne detta le dimensioni, due se il 3D è un miraggio, tre contando l’interdiscorso, la rete che lega il prodotto a tutti i significati possibili, detti e non detti, del genere, soprattutto ai suoi fondatori, isaac Asimov e il Ciclo della Fondazione, Philip Dick e le sue ucronie, James Ballard e così via discorrendo (fino alla antifrastica Guida Galattica per Autostoppisti). C’è da dire però che volontariamente Matt Groening ha in serbo una spaziotemporalità coerente e una narrazione lineare solo per una coppia di suoi personaggi, Fry e Lela, più volte destinati alla vita assieme; fino alla ritrattazione. Ecco: Futurama ha una caratteristica, racconta linearmente fino a prova contraria, una prova che fornisce lei stessa, è una narrazione palinodica.

Disincanto è un esperimento assolutamente anomalo nell’orizzonte di Groening. Ci si aspetta l’affondo su un nuovo genere, il Fantasy, ma alla maniera di Futurama (quindi, ripetendo, secondo una narrazione intermittente, non lineare, contraddittoria). Invece l’autore illudendoci ai primi episodi che Dreamland sia una nuova Springfield (i tipi ricorrono, le logiche pure) o una Nuova Nuova New York (idem con patate) ci sconvolge, ci fa ritrattare, facendo “risorgere” un personaggio che andava occupando il posto di conveniente archeologia personale e innesta una trama, una contestazione, una battaglia, anche una catabasi. Dreamland non è immobile: ha dei regni vicini, persino sconosciuti e tecnologicamente avanzati (nel topos della tecnocrazia ottocentesca, sia chiaro, con Steamland), conosce attraverso i sensi l’Inferno e il Paradiso, è magica quanto non, infine è stata costruita [semi-spoiler] sopra una città elfica (parodia di The Witcher?). I suo personaggi possono persino morire, più o meno definitivamente, e allo stesso modo impazzire.
In una terra di sogni, parafrasando, sembra quasi che ogni possibile immaginato esista, spazialmente di lato, da presso, accanto. Avviene così che Steamland non è altro che la fantascienza dagli occhi di un abitante di un mondo fantasy, allo stesso modo Inferno e Paradiso. Chi conosce Groening sa quanto ce l’abbia coi massimi sistemi, sa anche quanto gli costi la coerenza, la non-contraddizione. Se un po’ di credito vuole darsi al travaglio autoriale, all’autocontestazione, voglio pensare che se per Netflix Groening si è messo a raccontare con coerenza e con linearità (sia chiaro: le digressioni non mancano, mica si può snaturare) allora c’è in ballo qualcosa di grosso, qualcosa di rivoluzionario. Per questo non mi pronuncio sugli ultimi episodi usciti e preferisco aspettare (al 2022, pare).
(Della carta critica dell’antisortilegio, messo in pratica fin da titolo, mi preoccuperò più in là, quando sarà chiara).
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