
Madre – Danze del dolore e della levità
Non solo Wong Kar-wai. Ci è voluto un po’, ma alla fine il ventaglio si è aperto e, a scaglioni, più come eventi speciali che come passeurs delle sorti delle sale, in diverse regioni sono anche arrivati il Better Days (2019) di Derek Tsang, trionfatore degli scorsi Hong Kong Film Awards, il mastodontico 800 Eroi, e Park Chan-wook di ritorno con Old Boy (2003). Dalle nostre parti, un paio di mesi fa la Rai ha fatto anche il lavoro sporco di messa in vetrina su Rai Play, gratuitamente (ripetiamo, gratuitamente), di Jia Zhangke, Hou Hsiao-hsien, Edward Yang e pure Hu Bo. Questo rinnovato entusiasmo per l’Oriente-tutto parte più o meno dal trionfo di Parasite agli Oscar 2020, dal trionfo, quindi, di Bong Joon-ho. Ci si era messi a pescare poco dopo Memories of Murder (2003) come se fosse per noi un oggetto senza storia, di una cultura aliena, rinvenuto da chissà quale cosmogonia, e ora si fa lo stesso (per fortuna più consapevolmente), con l’altro grande titolo del regista coreano, Madre (2009).

Tre anni prima, in The Host (2006), Bong Joon-ho aveva rinvenuto il male nelle forze distruttive di un mostro tentacolare, una creatura magica degli abissi che però si era generata da un altro male: quello archetipico dell’uomo. L’operazione non era stata quindi così distante dal realismo nero di Memories of Murder, a cui Madre si aggancia in forma ancor più amara e disperata. Il film racconta di una donna che tenta di scagionare il figlio, Yoon Do-joon, affetto da una leggera disabilità mentale, accusato dell’omicidio di una ragazzina. Il corpo di polizia è inaffidabile e i detective idioti e supponenti: la prova minima che suggerirebbe il coinvolgimento di Do-joon è sufficiente per la polizia a svincolarsi da ulteriori sforzi, chiudendo il caso. La madre rifiuta di conciliare dentro di sé questa colpevolezza, muovendo un’indagine e una vendetta in solitaria.
Della donna, interpretata da Kim Hye-ja, non veniamo mai a conoscenza del nome, negato secondo una configurazione che la vede tutta addotta, tutta protratta all’assolvimento del ruolo di madre. Nella sottrazione del nome c’è quella dell’autodeterminazione. La donna si paga da vivere praticando l’agopuntura, ma è schiava degli ingranaggi del mercato nero; la sua sessualità repressa sembra poi suggerire la possibilità dell’incesto nella ricerca continua dell’ammorbamento fisico tra lei e il figlio. Proprio dentro un abbraccio a letto tra i due, quasi nel centro dell’inquadratura, si squarcia in dissolvenza incrociata l’apertura a un’altra vista, quella del corpo esanime e con la testa rotta della ragazzina, proteso sul davanzale di un terrazzino all’indomani dell’omicidio. È un passaggio estremo. Dalla custodia della posizione fetale di madre e figlio a una sua riproposizione macabra, immagine nera della rottura, punctum di emersione delle malignità tentacolari dell’abisso di The Host e del peccato invisibile di Memories of Murder.

Ma è poi tutto il film a essere costellato da una estrema metodicità compositiva dell’immagine. Torna, di nuovo e sempre in Bong Joon-ho, la percezione tattile dell’elemento liquido. L’umidità dell’acqua si tocca, con le macchie che si allargano lentamente a lambire l’indice di un sospetto dormiente e che potrebbe svegliarsi; e la pioggia battente nel paesaggio livido presagisce sempre la tragedia (come nelle notti degli omicidi in aperta campagna di Memories of Murder, nel prorompere dei tentacoli dai fiumi in The Host, nel diluvio che allaga la casa-interrato e insudicia la famiglia in Parasite). In questo allagamento si perdono pure le tracce del thriller, bagnato com’è dalle forme della satira nell’irrisione del corpo di polizia e nella ridicolizzazione della gestualità dei personaggi. Tracce note del capolavoro del 2003, a cui però ora si aggiungono pulsioni nuove che traducono l’ambiguità narrativa dell’indagine poliziesca in una ambiguità delle immagini stesse. Il più grande avvocato della provincia, che dovrebbe occuparsi della difesa di Do-joon, impugna invece un microfono e canta a un karaoke, ubriaco, circondato da prostitute, straniando e mortificando il dramma, in una sospensione che evoca un atteggiamento tipico dei maestri d’Oriente, come l’Edward Yang della sequenza cantata di “Angel Baby” in A Brighter Summer Day (1991).
Di più, però, Bong Joon-ho convoca la somma mescidazione di genere e di senso propria di Jia Zhangke, che proprio in quegli anni traslava forme e percorsi come nessun’altro autore sul pianeta. Ecco, allora, la danza della madre senza nome in ouverture, incorniciata in solitaria in un pallido widescreen, a muovere coi gesti dei fianchi e delle braccia l’espressività del proprio dolore. La rivedremo circolarmente in chiusura, a postulare stavolta, forse, la liberazione del corpo e dell’anima. Una soluzione e un intero cinema frutto di combinazioni alchemiche, una chimera come quella di Zhangke (che proporrà una sequenza finale danzata, altrettanto aliena e magica, in Al di là delle montagne, nel 2015). Dal nulla, ecco una giornata assolata: l’immagine di una danza felice, della levità, non più amara, che prorompe confusamente quando la donna pratica finalmente su di sé l’agopuntura, “per sciogliere i nodi del cuore”.

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