
L’essenza de “Il Cattivo Poeta” – Intervista a Daniele Ciprì
Di Ludovico Cantisani e Tobia Cimini
Daniele Ciprì è regista e direttore della fotografia tra i più apprezzati del panorama italiano. Assieme a Franco Maresco esordisce in televisione come autore di Cinico TV, si dedica poi al cinema sempre in coppia con Maresco, curando sia la regia che la fotografia dei loro lavori. La sua carriera vanta collaborazioni importanti: Bellocchio, Celestini, Giovannesi. daniele ciprì cattivo poeta
Gli sono stati riconosciuti due David di Donatello alla miglior fotografia, il primo per Vincere di Marco Bellocchio e il secondo per Il primo re di Matteo Rovere. Per la fotografia de Il cattivo poeta di Gianluca Jodice ha ottenuto un Nastro d’argento.

Come hai conosciuto il regista Gianluca Jodice e come ti ha presentato il progetto?
Gianluca è stato una grande sorpresa. Spesso lavoro con Groenlandia (a cui va riconosciuto il coraggio produttivo, soprattutto di Matteo Rovere) e Ascent, che mi hanno presentato sia il progetto che Gianluca. Mi incuriosiva moltissimo il fatto che fosse un’opera prima. Gianluca aveva già le idee chiare, sapeva quello che voleva raccontare su questo “poeta maledetto”, che io chiamo “Dracula” perché l’estetica del Vittoriale dove lui si richiude mi ricorda tanto Stoker.
Di Gianluca conoscevo comunque alcuni lavori che aveva fatto, come il backstage de La grande bellezza. Avevamo amici in comune, tra cui Paolo Sorrentino. Ma mi importava poco, quello che mi interessa è la complicità. Ci siamo conosciuti dopo la rispettiva stima per i nostri percorsi, insomma.
Sul set la collaborazione è stata semplice?
È nata una grande amicizia e una grande complicità. Il discorso è partito, come sempre, dal cinema che abbiamo visto. Con Gianluca c’era una grande intesa a livello di cinefilia, di cinema da evocare. Lui amava citare alcuni film di Bertolucci, ad esempio. In più, per me c’è stata anche la curiosità di girare nei luoghi dove realmente ha vissuto D’Annunzio, come il Vittoriale. Mi interessava lavorare in un luogo straraccontato nei documentari come museo e reinventarlo nell’immaginario cinematografico. Ho sposato quest’idea e siamo andati avanti.

Come hai già detto, Il cattivo poeta è un’opera prima. Credi che questo abbia influito sul risultato finale del film?
Gianluca è stato bravo, come i vecchi registi, a raccontare un personaggio abbandonato a sè stesso senza esasperare. Ha raccontato D’Annunzio come Welles ha raccontato Kane in Quarto potere. Un regista giovane, esordiente, che si cimenta con un film del genere ha davvero talento, perchè è difficile anche per chi ha più esperienza. Io mai avrei pensato a un film su D’Annunzio come opera prima, gliel’ho anche detto e lui si è messo a ridere. È una persona molto semplice e mi ha fatto innamorare del suo mondo, sono contento di conoscere e lavorare con autori così.
Sin dalla sua giovinezza Gabriele D’Annunzio è stato un personaggio pubblico oggetto di una sterminata iconografia. Tu e il regista come vi siete accostati a lui da un punto di vista visivo?
Sì, è stato un personaggio amato e odiato. È un poeta maledetto a tutti gli effetti, anche per il suo rapporto con il Fascismo. Ma Gianluca ha voluto raccontare il periodo dell’isolamento, e quello è un ruolo che mi appartiene, sono i film a cui tengo maggiormente. Quando lavoro con gli altri mi basta divertirmi e sperimentare, ma in questo caso è stato ad attirarmi è stato proprio il racconto del decadimento. Come faccio sempre, ho cominciato a citare film, partendo dai più assurdi: Stoker, Dreyer, Welles.
I riferimenti ai grandi maestri del passato vi sono serviti anche per rievocare quell’atmosfera di inizio Novecento?
Per affrontare una storia del genere devi avere un legame con il vecchio cinema. Dico sempre che il mio è un cinema vecchio… ma in senso positivo, perché il nuovo scompare, è una legge che esiste dalla notte dei tempi. Io infatti non mi ricordo mai i film contemporanei ma ricordo benissimo quelli vecchi.
Evocare un cinema passato era il modo migliore per raccontare un personaggio pieno di sfaccettature come D’Annunzio. Ovviamente non dipende da me, ma dall’autore: io mi metto al servizio dell’immaginario che io e il regista condividiamo. È stato abbastanza semplice perché Gianluca ha una grande conoscenza del cinema da spettatore, confrontarci e viaggiare all’interno di questa storia ci è venuto facile.

Il cattivo poeta è dominato dalla presenza di un invecchiato Sergio Castellitto nei panni del settantenne D’Annunzio. Come ti sei relazionato con lui sul set del film?
Sergio è stato straordinario. Avevamo già lavorato insieme, è un attore strepitoso, si mette totalmente al servizio del film: si è addirittura rasato completamente! Come dico sempre, la prima immagine sono gli attori, il resto è quello che scegli tu per dare più forza alle interpretazioni. I costumi, ad esempio, sono ricercatissimi, così come la scenografia, che ha dovuto anche “invecchiare” dei luoghi.
Sergio ha dato una caratterizzazione straordinaria al personaggio, non l’ha imitato ma l’ha evocato. Nessuno di noi ha conosciuto D’Annunzio, ma lui è riuscito a rappresentarlo come un ricordo, col corpo e con l’anima. Sergio era lui, dormiva nel suo letto, camminava nel suo corridoio, era lui e non capita spesso nel cinema italiano di potersi immedesimare così anche nei luoghi. Ha dato una forma, una musicalità, una tonalità al personaggio senza imitarlo. Ha scelto di dargli una caratteristica di nostalgia, di abbandono, di tristezza e ci è riuscito. Avrebbe meritato tanti premi, ma il premio più bello è essere riuscito a fare un personaggio così complicato.
In che modo il trucco applicato sul suo volto si relazionava con la fotografia?
Sul trucco, proprio perché non mi abituo alla falsità, questo lavoro mi ha convinto tanto. Sergio è stato scelto per altri motivi, ma ha una grande somiglianza con D’Annunzio. Lo guardavo nei controluce, nella penombra che Gianluca voleva sempre nelle scene, soprattutto all’inizio, e mi sembrava di vedere un fantasma. Il trucco quindi è stato abbastanza delicato, non aggressivo. Avremmo anche potuto calcare di più, perché D’Annunzio muore più vecchio, ma non abbiamo voluto esagerare.

Gran parte de Il cattivo poeta è stato girato nel vero Vittoriale degli Italiani, la residenza di D’Annunzio sul Lago di Garda. Come hai caratterizzato visivamente l’ambiente e come lo hai variato di scena in scena?
Il Vittoriale, come ha detto anche Sergio, è stato protagonista, una delle anime del film. Tanta della bellezza del film risiede in questa struttura. Noi eravamo dentro l’anima concreta di D’Annunzio e questo ci ha dato molti input. Io non conoscevo il Vittoriale, ma la cosa straordinaria è che è sempre rimasto identico, dopo la morte di D’Annunzio non hanno toccato nulla. Ho avuto l’opportunità di essere turista nella storia di un uomo che si studia nelle scuole. Per me è stato un grande regalo.
Ti svelo un segreto: per illuminare ho imitato la follia di D’Annunzio. Quando ho fatto i sopralluoghi mi sono concentrato sulle stanze, D’Annunzio aveva anche una sala cinematografica lì, con cento posti, ma a me piaceva lavorare sulle stanze. In particolare lui aveva ovunque dei vetri colorati e nel salotto ho scoperto che aveva fatto mettere nelle colonne delle conchiglie arancioni che avevano una lampadina dentro. Non capivo il perché, ma poi ho scoperto, grazie al direttore del museo, che queste lampadine, dando la stessa incidenza della luce esterna man mano che calava la sera, facevano esattamente quello che facciamo noi nel cinema. Con altri mezzi, ho imitato quella luce, perché volevo rispettare la luce naturale, così come voleva D’Annunzio. daniele ciprì cattivo poeta

Con quale macchina da presa hai girato Il cattivo poeta e con quale set di lenti?
Ho girato tutto il Vittoriale con degli obiettivi “imperfetti”, ossia degli anamorfici chiamati Kowa, che fanno paura perché distorcono le immagini. Invece il periodo del Fascismo e di Roma con gli Zeiss, che sono geometrici e perfetti, anche se comunque un po’ vintage. In questo modo hai il contrasto tra la geometria del Fascismo e il Vittoriale che è filmato come se fosse una cosa scaduta, vecchia, morta.
Come macchina da presa invece ho scelto la RED Gemini, che per me è assurda. Non che sia una brutta macchina, è bellissima. Ho fatto dei provini al Vittoriale sia con la RED che con l’Alexa e mi sono accorto che la RED dava risultati migliori nell’incidenza della luce, dava un cristallino e un disegno molto antico, ho abbassato tutti i colori e ho tenuto quella pasta.
Una delle scene visivamente più belle de Il cattivo poeta mostra le torture inflitte ad un insegnante dissidente da parte del personaggio di Lino Musella, sotto gli occhi sgomenti del protagonista. L’unica fonte di luce sembra essere diegetica ed è una lampadina appesa al soffitto. Come hai realizzato quella scena? Avevate in mente qualche reference particolare tra cinema e pittura?
È molto semplice: cos’è che può illuminare una tortura? Una lampadina, per forza, anche perché in uno scantinato che cos’altro può esserci? Con Gianluca abbiamo deciso di mantenere il buio totale, murare tutto dietro. Scene del genere ci sono in centinaia, migliaia di film, penso a quelli degli anni ’50 soprattutto. Quando lavoro ho citazioni continue che mi passano in testa. Lì mi sono ricordato di una scena de Il corridoio della paura di Samuel Fuller, uno dei primi registi americani ad utilizzare la macchina a mano, in cui una coppia litiga ed è illuminata solo dalle lampadine.
I riferimenti pittorici ci sono sempre, chi non ce li ha? Ma entra sempre in gioco anche il cinema con cui uno è cresciuto. Tutte le idee delle mie immagini vengono dai film che ho visto, è sempre un gioco spietato all’imitazione. Vale per tutti, c’è chi onesto e lo dice e chi sostiene di aver inventato, che invece mi fa ridere.

C’è qualche altra scena in particolare che ha stuzzicato la tua immaginazione e il tuo immaginario?
Tu hai citato la scena della tortura, ma io riavvolgerei la moviola e ti porterei alla scena subito prima, in cui il personaggio è su una scala. Lì la luce è diurna. Per girare quella scena ho scelto di aspettare: quella scala è enorme e avrei dovuto illuminarla, invece ho aspettato un orario in cui la luce mi arrivasse a cavallo, mettendo delle incandescenze. La scala, però, se la guardi dal vero non è mica tanto bella… Quella scena mi fa onore, perché c’entra anche il gusto oltre all’immaginario. Lì ho avuto il gusto di trasformare un luogo brutto in una scala bella. È una cosa che facevo già a Cinico TV, facevo dei paesaggi alla Ford ma di fatto io davanti avevo solo macerie.
Il personaggio di D’Annunzio è generalmente controverso e complesso, anche a un secolo di distanza dalla sua vita. Qual era la tua visione e la tua conoscenza di questo personaggio? Lavorare a Il cattivo poeta ti ha fatto mutare punto di vista o allargato la tua visione di D’Annunzio?
Qui devo ringraziare ancora Gianluca perché mi ha permesso di approfondire questo personaggio, di conoscerne la storia. Mi ha affascinato tantissimo l’amicizia che aveva con le persone, non conoscevo questo suo aspetto. Per le persone che erano con lui aveva un affetto commovente, quello tipico di qualche epoca fa. Era sempre vecchio, sempre guidato, accompagnato, amato e odiato. Ma soprattutto amato. daniele ciprì cattivo poeta
Tra lui e il ragazzo, nel film, è quasi una storia d’amore, sicuramente una storia sentimentale. Il finale nella nave è molto tenero. Anche questo rispetto per la generazione giovane, di questo ragazzetto che deve fare strada, mi è piaciuto molto. Penso sia perché sento che mi appartiene. Nell’arte fai tante cose ma non basta, ci devi lasciare l’anima. D’Annunzio in casa aveva un amore profondo per chi era con lui, gli altri non li amava, anzi li odiava, era cinico. Una persona stranissima e con tutti i vizi del mondo, ma il cui notevole rispetto degli mi ha davvero molto affascinato. daniele ciprì cattivo poeta

Il tuo è stato uno dei percorsi più eclettici e particolari del cinema italiano, iniziando con Cinico TV in coppia con Maresco grazie alla quale avviasti un’importante carriera da regista prima a due e poi in solitaria, ma ormai ti sei affermato anche come uno dei direttori della fotografia più acclamati di questi anni. Cosa ti ha spinto a iniziare e perché sei passato gradualmente ma definitivamente dalla regia alla fotografia? Adesso che ti occupi principalmente di direzione della fotografia, in che modo alterni grosse produzioni Netflix e film d’autore come questo?
Mi sono sempre dedicato sia alla regia che alla fotografia. All’inizio avevo dei colleghi – i primi due film li ha fotografati magnificamente Luca Bigazzi – ma poi ho deciso di occuparmi io della fotografia. Da un certo momento in poi mi sono iniziate ad arrivare tantissime proposte come direttore della fotografia, tra cui quelle di Bellocchio, però non ho mai smesso di lavorare ai miei film da regista. Rubo le parole a Freddie Francis, che pure aveva cominciato come regista per poi passare alla fotografia: quando lavoro con un collega regista sondo, cerco di capire che apporto riesco a dare io in quel film. Per me fare il regista e il direttore della fotografia è la stessa cosa, si tratta di immaginare le immagini, magari tecnicamente le realizza un altro, ma il film lo penso io, è nella mia testa. Mi sono dedicato alla fotografia per crescere e studiare. Ora è passato tanto tempo, ma mi sto decidendo a fare di nuovo un film da regista.
Con Netflix ci lavoro sì, ma va detta ai giovani la verità, perché sta crescendo una generazione di cinéphiles che col cinema non c’entra nulla. Il digitale ha democratizzato l’immagine e Netflix fa prodotti identici, tanto che quando vedo un film in bianco e nero, magari vecchissimo, mi viene da dire che quell’immagine lì oggi sarebbe un passo avanti. È un paradosso. Bisogna insegnare ai giovani a coltivare un immaginario diverso, riscoprendo il cinema vero. daniele ciprì cattivo poeta

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