
Intervista a Francesco Patanè – La buona pratica dell’attore
Francesco Patanè, genovese, classe 1996, è uno dei più interessanti talenti emergenti della recitazione italiana. Il suo recente debutto sul grande schermo, ne Il cattivo poeta, diretto da Gianluca Jodice, lo ha reso noto al pubblico a livello nazionale e gli ha permesso di ricevere importanti riconoscimenti da parte della critica, fra tutti la candidatura come Miglior attore non protagonista ai Nastri d’argento del 2021. Risultati che assumono forse ancor più valore se si pensa alla straordinaria importanza degli interpreti che componevano il cast del film: Sergio Castellitto, Elena Bucci, Tommaso Ragno e Fausto Russo Alesi, per menzionarne solo alcuni.
Insomma, già il solo non sfigurare in mezzo a una simile pletora di grandi personalità affermate nel mondo del cinema sarebbe stato un buon traguardo. Spiccare, fino ad arrivare addirittura a rubare la scena agli illustri colleghi, rappresenta certamente un’impresa fuori dal comune per un novizio, tanto che viene da chiedersi come abbia fatto Francesco ad arrivare ad un simile exploit, quale sia il suo segreto, dove stia il trucco.

Il trucco effettivamente c’è. E sta nel fatto che Francesco Patanè è tutto, meno che un novizio. Per quanto il suo volto e le sue abilità di attore stiano raggiungendo il grande pubblico soltanto adesso, il lavoro di Francesco sul proprio talento e sulla propria sensibilità parte da molto lontano. Nonostante la giovane età, infatti, Patanè ha iniziato a calcare i palchi quasi vent’anni fa, e da allora non ha mai smesso di sperimentarsi in teatro e davanti alle macchine da presa.
Francesco, il tuo lungo percorso richiama alla memoria un’altra generazione di attori, spesso figli o nipoti d’arte, che si formava con la pratica del mestiere fin dalla più tenera età. Tu, però, non provieni da una famiglia di artisti. Cosa ti ha spinto a cominciare così presto?
Anche se è vero che i miei genitori non sono attori, sono stati comunque loro a spingermi verso i primi corsi di recitazione, quando avevo appena sette anni.
Come mai?
Credo che la ragione principale sia stata che non ce la facevano più ad ascoltarmi ripetere a memoria tutte le sceneggiature dei cartoni animati Disney, imitando le voci di ogni singolo personaggio, per ore e ore senza interruzione, sia in versione integrale, che in versione ridotta da musicassetta.
Li hai presi per sfinimento?
Diciamo che un po’ si divertivano, e comunque potevo venire comodo durante pranzi di famiglia e altre situazioni conviviali per intrattenere amici e parenti. Un po’ non ne potevano più. Così hanno cercato una possibile strada alternativa per convogliare questa mia necessità di imitare, ripetere a memoria, e avere un pubblico. Un corso di teatro per bambini sembrava la soluzione ideale. A Genova esiste da più di trent’anni una realtà che si occupa di questo tipo di formazione, La Quinta Praticabile. Un posto magico che mette insieme le passioni di bimbi e adulti e, nel clima di gioco, ha già sfornato tanti ottimi attori professionisti.

Col senno di poi, si può dire che i tuoi hanno avuto l’intuizione giusta. Il bambino imitatore che eri ha trovato pane per i suoi denti?
Il bambino imitatore che ero ha trovato esattamente quello che stava cercando: uno spazio dove giocare liberamente, con e per gli altri, seguendo un complicato insieme di regole di scena che rendevano il tutto ancora più divertente. Inoltre, era uno spazio dove le emozioni stavano al centro, e questo era forse l’aspetto che mi prendeva di più, mi sembrava che mi insegnasse tanto anche su come stare nel mondo fuori dal palco. Diciamo che fino ai dodici anni avvertivo di trovarmi più a casa, più al mio posto, quando stavo dentro al teatro, rispetto a quando ne stavo fuori. Quindi quando ho cominciato a capire che potevo farne un mestiere, non ho avuto dubbi su quale fosse il mio sogno da inseguire.
E quando hai capito che avresti potuto vivere recitando?
Sempre intorno ai dodici anni. Alla scuola di recitazione sono venuti Tosca e Massimo Venturiello per fare uno stage con noi giovanissimi allievi, al termine del quale avremmo messo in scena uno spettacolo dal titolo Oltre il muro, scritto dalla direttrice della scuola, Modestina Caputo. Confrontandomi con questi due grandi professionisti, e soprattutto sentendo la loro grande fiducia, ho cominciato a realizzare che una carriera come attore poteva essere possibile. Ma, visto che sono di indole piuttosto timida e insicura, ho avuto bisogno di molte altre conferme per arrivare a credere fino in fondo che potevo, anzi, dovevo diventare un attore.

Ti va di raccontare qualcuno di questi momenti di conferma che ti hanno dato la convinzione di cui avevi bisogno?
Beh, sicuramente un altro attestato di stima importante mi è arrivato qualche tempo dopo, quando avevo circa sedici anni, da Massimo Mesciulam, insegnante della Scuola di recitazione del Teatro Stabile di Genova. Anche lui teneva un breve stage all’interno della Quinta Praticabile per tutti quei ragazzi che, come me, cominciavano a capire che dopo il liceo volevano frequentare un corso professionalizzante per attori di prosa, e anche lui mi disse che dovevo assolutamente insistere con questa passione, perché avevo tutte le carte in regola per potercela fare. Anche il recente provino per ottenere la parte ne Il cattivo poeta è stato un momento importante. In generale, il grande grado di sostegno che mi ha dato Gianluca Jodice durante tutto il corso delle riprese è stato fondamentale per riuscire a lavorare al meglio ed è un’iniezione di fiducia che ho intenzione di portarmi dietro per tutto il tempo che riesco.
Questi sono stati momenti determinanti e segnanti per la tua autostima e la tua determinazione, elementi senza dubbio cruciali per chiunque voglia intraprendere la carriera da attore. Ma che, ovviamente, non sono sufficienti di per sé a fare un buon interprete. Al di là del talento che ti è stato tante volte riconosciuto, ci sono state esperienze che ti hanno aiutato a capire come migliorare sul palco, che ti hanno aiutato a crescere come attore?
Certo, come ti dicevo, e come tanti colleghi in questo settore, sono un po’ insicuro, quindi la fiducia di insegnanti e registi mi è stata di grande aiuto. Però un attore si fa con il mestiere, con la pratica del sentire e del vivere sul palco. Tante volte si sente dire di mostri sacri della recitazione che hanno una “tecnica” pazzesca, perché sembra che riescano ad andare in automatico, a fare un terzo della fatica che fai tu giovane attore quotidianamente, ottenendo il triplo del risultato. Ma, in realtà, mi sono convinto, osservando bravi attori molto più esperti di me, che non si tratta di “tecnica”, cioè di qualcosa di sterile che sai fare in maniera distaccata, bensì di “pratica”, cioè di allenamento dello stare, del reagire e del sentire attivamente in scena.
E la “pratica” te la regalano solo gli spettacoli, i film e tutte le esperienze di recitazione che ti aiutano ad aggiungere un tassello all’attore che sarai.

Nel tuo caso specifico, saresti in grado di individuare con precisione alcune di queste esperienze e le ragioni per cui le senti più importanti di altre?
Dopo lo spettacolo con Tosca e Venturiello, il primo spettacolo che mi abbia veramente cambiato è stato Vento che ha fame, diretto da Christian Zecca. Ero solo sul palco per tutto il testo e ho capito che non avevo paura, ma avvertivo un forte senso di libertà espressiva. Poi non posso non mettere lo spettacolo Sangue matto diretto da Elena Gigliotti; lì eravamo quasi tutti ex allievi neodiplomati della Scuola dello Stabile di Genova, interpretavamo ragazzi problematici poco più giovani di noi e, vuoi per i temi trattati dal testo, vuoi per le scelte stilistiche della regista, eravamo tutti molto esposti. Questo tipo di esposizione ci ha costretto a comprendere il significato dello sforzo che segna il confine tra verità e menzogna. In pratica ho capito che, in teatro, o dai tutto te stesso, o sei un ciarlatano. Dopodiché citerei BU 21 diretto da Alberto Giusta, che mi ha dato la possibilità di comprendere quanto lontano da te puoi andare per incontrare il tuo personaggio.
E, infine, subito prima de Il cattivo poeta, voglio mettere l’Antigone diretto da Venturiello, perché quando hai ventitré anni, reciti da quindici e cominci a sentirlo davvero come un lavoro, rischi di rimanere vittima della tua routine espressiva decisamente troppo, troppo presto. Invece Massimo, in virtù del rapporto che ci unisce fin da quando ero un ragazzino, mi ricordava in continuazione di divertirmi come quando ero bambino, e questo mi è servito da promemoria e da piccolo risveglio personale.

Ultima domanda: teatro o cinema? E perché?
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Perché amo troppo entrambi. Recitare per un pubblico o per una camera significa fare più o meno la stessa cosa, solo dosandoti in maniera diversa. Quindi non puoi chiedermi di scegliere, è come quando da piccolo ti chiedono se vuoi più bene alla mamma o al papà. Non c’è una risposta sensata, almeno per me.
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