
Barocco, sangue e fantasia – Intervista a Daniele Nannuzzi
Di Tobia Cimini
Daniele Nannuzzi è tra gli autori della fotografia con maggior esperienza in Italia. Ha lavorato, tra i tanti, con Alejandro Jodorowsky, Franco Zeffirelli, Ettore Scola, Luchino Visconti, Carlo Lizzani, Federico Fellini e Liliana Cavani. Nel 2003 ha vinto il David di Donatello alla migliore fotografia per El Alamein di Enzo Monteleone. Attualmente presiede l’associazione Autori Italiani della Cinematografia (AIC). Lo abbiamo intervistato a trentadue anni dall’uscita di Santa Sangre (Jodorowsky, 1989) per farci raccontare il suo punto di vista sul film.

Sono passati più di trent’anni dall’uscita di Santa Sangre. Che ricordi ha di quel set dopo tutto questo tempo?
Sembra ieri. È stata un’esperienza pazzesca, un evento che ha segnato la mia vita artistica. É forse il più bel film che abbia fatto “di testa”: ne ho fatti altri forse più belli, ma diversi… questo è un film che ho dovuto interpretare.
Cos’ha pensato quando è stato chiamato?
Un sogno. Di Jodorowsky avevo visto solo La montagna sacra (1973), che mi aveva sconvolto. Non riuscivo a capire perché mi avesse voluto per un film così assurdo, che sul copione era ancora più ostico ed ermetico. Quando gliel’ho chiesto, mi ha detto che era per via di Young Toscanini (1988) di Zeffirelli. Mi è sembrato ancora più incomprensibile, perché quello era un film barocco, sontuoso e lui mi ha risposto: “infatti, voglio che fotografi il fetore di Città del Messico con lo stesso rispetto e la stessa sontuosità”. Così mi ha dato l’idea, Santa Sangre alla fine è un film barocco. daniele nannuzzi
Cosa ricorda del vostro primo incontro?
Sono rimasto stupito, mi aspettavo un pazzo con gli orecchini o cose simili, invece ho visto un signore anzianotto, educatissimo e delicatissimo. Un ragioniere, insomma. Ricordo di aver pensato: “Oddio, ma questo è davvero Jodorowsky?”. Lui è tutto fantasia. Quindici giorni prima dell’inizio delle riprese mi ha voluto in Messico per farmi vedere i posti dove avremmo girato. Ho capito dopo che quello era una sorta di training per portarmi dentro il suo mondo.
Collaborare fu complesso?
Direi più che altro stranissimo. Durante il film non mi ha dato nessuna indicazione, facevo tutto da solo. Non ha voluto neppure l’operatore di macchina perché non voleva interferenze, dovevamo essere un cervello unico. Solo alla fine mi sono reso conto che da incantatore qual è mi aveva “plagiato”, mi aveva trasportato dentro il suo mondo e mi aveva lasciato andare. Mi sono scatenato, mi si era generata dentro una forza e una fantasia pazzesca. Non vedevo l’ora di andare a lavorare, ero un vulcano di idee, interpretazioni, colori. Ma me ne sono reso conto alla fine di essere “mosso” da lui.

C’è una scena in particolare a cui è maggiormente legato?
La scena in cui il protagonista sale nel teatro, ipnotizza e finge di legare le mani all’attrice, che rimane “annodata”, secondo me è tra i movimenti di macchina più belli di sempre: il piano sequenza a seguire le sue mani, il coltello e tutto il resto è straordinario. Ma ci sono tante altre scene da ricordare: tutte le varie morti, gli spettacoli nel teatrino, le sequenze in casa della prostituta… E poi quell’incredibile scena in cui il protagonista riconosce, nella piazza, la donna tatuata che balla il mambo. È da quel momento che nel film cambia tutto, arriva la follia. daniele nannuzzi
Da quel momento in poi anche la fotografia si fa più surreale.
Sì, ma nel film c’è una continuità che segue lo sviluppo del racconto. Tutta la prima parte ha dei colori pastello, delicati. La fotografia “impazzisce” quando nella storia incomincia la follia, a quel punto arrivano le strade rosse, i cieli gialli, il blu, il viola, il verde.
E il rosso del sangue, che è sempre difficile da illuminare.
Certo, perché più gli dai luce e più diventa buio, come il vino rosso. Bisogna sempre illuminarlo da dietro con una luce chiarissima. In Santa Sangre c’è addirittura una piscina di sangue, per illuminarla ho quasi fritto una comparsa, perché ho dovuto mettere delle lampade subacquee. Luci a corrente continua immerse nell’acqua, puoi immaginare. La ragazza a un certo punto mi ha detto che iniziava a sentire un pizzicorio alle gambe, l’abbiamo fatta uscire immediatamente.

Nel film c’è anche un interessante rimando a L’uomo invisibile (1933) di James Whale…
In quella scena c’è una chicca che nessuno ha mai notato. Ho messo un piccolo carrello dietro il protagonista: quando va davanti allo specchio, per un momento il riflesso rimane vuoto. Per un attimo pensi che sia diventato davvero invisibile, poi ti accorgi che non è così. È una cosa che ho pensato sul momento.
Improvvisavate molto?
Ero liberissimo di fare quello che volevo. Jodorowsky mi spiegava la scena e io poi la interpretavo, gli proponevo le inquadrature. Lui mi diceva di sì, perché era esattamente quello che voleva: semplicemente lasciava che lo scoprissi io. Non voleva che eseguissi, voleva che inventassi. Mi lasciavo molto ispirare anche dai luoghi.
In che modo?
Sono tutti luoghi reali, con storie incredibili. La villa, ad esempio, era quella di un attore messicano che ha ammazzato tre persone. Persino le comparse della discarica erano persone che ci vivevano davvero: Jodorowsky li aveva fatti immergere in un calderone enorme di acqua e cemento a presa lenta e poi li aveva fatti asciugare al sole. Davanti a cose del genere la fantasia si scatena. La storia stessa, d’altronde, è vera.

Intende la trama?
Sì, era scritto nel copione, poi decisero di tagliarlo. C’è stato davvero un ragazzo che ha ucciso tredici donne in quel modo, con quelle turbe. Lo hanno arrestato e dichiarato pazzo, ma in carcere ha preso nonsoquante lauree ed è diventato un avvocato famosissimo, tanto che lo hanno graziato. Ovviamente il film è solo ispirato a questa storia: tutte le follie di Jodorowsky sono totalmente inventate.
Ha mai rivisto il film?
Certo. Trovo che sia un film che si lascia vedere, può piacere o non piacere ma sicuramente rompe le righe, è completamente fuori da qualsiasi schema. Non è un film da famiglia, ma ai giovani può piacere, anche perché c’è una morale. Lo sento un po’ come il mio cavallo di battaglia: ho fatti molti film, ma questo è quello che mi è rimasto maggiormente nel cuore.
Si ringrazia Simone Marra per aver permesso questa intervista.
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