
DAU. Natasha – L’URSS ricreata in laboratorio
12 chilometri quadrati di set, 3 anni di riprese, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, 700 ore di girato, almeno 6 serie tv e 15 film in produzione (disponibili su dau.com), di cui DAU. Natasha è il primo. I numeri sono un buon inizio, ma non rendono appieno la complessità del progetto DAU orchestrato da Ilya Khrzhanovsky, che lo definisce “un progetto sull’isolamento, filmato in isolamento, per persone in isolamento.”
La finta città-laboratorio eretta a Kharkiv, concepita in origine per realizzare il biopic del fisico Lev Landau (“Dau” per gli amici), è divenuta una realtà alternativa ambientata tra 1938 e 1968. In questa realtà oltre quattromila persone per anni hanno potuto abitare, vivere, socializzare e lavorare. Un po’ come accade in The Truman Show (Peter Weir 1998) e Synecdoche, New York (Charlie Kaufman 2008). Inoltre, scienziati professionisti hanno potuto continuare all’interno di Dau le loro attuali ricerche, realizzando inediti crossover tra arte e scienze.

Il cinema non è quindi l’unico esito del progetto multidisciplinare, ma è certamente il medium in cui emergono più nitide le potenzialità radicali di questo esperimento immersivo. Lo dimostra DAU. Natasha, film diretto da Khrzhanovskiy insieme a Jekaterina Oertel, storia di una cameriera (Natasha, appunto) articolata in quattro parti: il litigio con la giovane collega Olga, la festa notturna a casa di Olga con gli scienziati, il secondo litigio con Olga e infine il brutale interrogatorio di un ufficiale del KGB, che la punisce per essere finita a letto con uno scienziato straniero.
Poiché la finzione è totale, non c’è nulla che non sembri autentico: la gelosia di Natasha per la gioventù e la bellezza di Olga, il sesso tenero e disperato con Luc, la lenta discesa solitaria verso la depressione, persino la grottesca fascinazione per il suo carnefice, specchio della sindrome di Stoccolma che regola le dinamiche tra il cittadino sovietico e l’enorme, sadico e inespressivo apparato statale – perfetto in questo senso il physique du rôle dell’ufficiale Azhippo.

Filmato esclusivamente in camera a mano, con uno speciale sistema di illuminazione che permette di prescindere da fonti di luce aggiuntive, DAU. Natasha genera una fortissima impressione di realismo allestendo una visualità vacillante, discontinua, perturbata da primi piani famelici e ripetuti jump–cut.
Malgrado le tecniche utilizzate non si tratta di cinema del reale quanto di cinema-reality, mutuato cioè dalle dinamiche dei reality show, che ambiscono a rappresentare personaggi ed emozioni naturali partendo da un contesto artificiale: estendere l’osservazione a ogni punto del tempo e dello spazio per azzerarne l’impatto, renderla in qualche maniera invisibile, distaccata, ininfluente. La stessa logica di un esperimento scientifico, e che informa anche il Moloch sovietico: impersonale, metodico, indifferente alle vicende umane.

Lo racconta bene il brutale interrogatorio di Natasha, blandita e offesa, denudata e rivestita. Azhippo le offre aperitivi tra una tortura e l’altra, prima di dettarle un insensato atto d’accusa verso l’amante. Una non-trama che pare scritta da Cechov, greve e surreale come l’URSS. E come gli esperimenti basati sulla pseudoscienza orgonica di Wilhelm Reich – affascinanti, ma non molto più seri del festino alcolico in cui si mescolano scienziati e sottoposti.
Con DAU, lo spettatore occupa un punto privilegiato per testimoniare l’effetto di pressioni invisibili ma ineludibili, che via via spingono, schiacciano, soffocano gli individui. La stessa storia dell’URSS si potrebbe leggere allora come un immenso, abietto esperimento eseguito su milioni di persone. Ma il vero esperimento qui coinvolge gli spettatori, irretiti da un’opera estenuante, avvolgente, che ha la potenza di un dramma e la crudezza di un documentario. E per una volta non è male fungere da cavia.

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