
#PFF22 – Brodo di carne
Per quest’edizione Birdmen è media-partner del Pentedattilo Film Festival, il festival internazionale di cortometraggi che si svolge a Pentedattilo (Reggio Calabria) dal 19 al 22 Agosto. Qui le nostre recensioni in anteprima. Alcuni redattori di Birdmen comporranno la giuria della Sezione Thriller.
In concorso nella categoria Thriller del Pentedattilo Film Festival, Brodo di carne (Italia, 2018) è un cortometraggio diretto da Vittorio Antonacci, scritto dal regista insieme con Daniela Mitta e prodotto da Redigital. Il film è un’istantanea di un interno casalingo in cui si muovono un giovane operaio (Antonio Bannò), impegnato a montare una zanzariera, e la proprietaria di casa (Rosanna Gentili), assorbita da una vivace conversazione telefonica.

Lo sguardo registico, attraverso i movimenti della macchina da presa, rende palpabile una possibile tensione erotica tra il giovane e la proprietaria: un alone di desiderio misterioso, a tratti ambiguo, esala dalle soggettive degli sguardi dell’operaio che, pedina immobile sulla soglia tra esterno e interno, imprigionato in limine esattamente come la zanzariera che si accinge a montare, segue i movimenti frenetici e caotici della donna, che invece satura lo spazio in una bulimia di gesti, parole e passi.
L’unico momento di contatto fisico tra la proprietaria e l’operaio avviene quando la donna toglie le scarpe e si appoggia sulla spalla del giovane, in cerca di supporto. Un gesto estremamente simbolico, che esplicita visivamente la ricerca di un equilibrio delicato che sembra sfuggire all’interno della dinamica in cui agiscono i personaggi.
Solo negli ultimi minuti del film la tensione tra l’operaio e la proprietaria diminuisce gradualmente finché non viene improvvisamente interrotta dall’ingresso in scena del terzo personaggio (Teodosio Barresi), un anziano signore in stato catatonico in attesa del suo pasto: un piatto colmo di brodo di carne, appunto. Egli diviene ostacolo tra gli altri due personaggi – imprigionato nel silenzio di un corpo immobile – eppure si rivela l’unico in grado di agire narrativamente la realtà.

In Brodo di carne ciascuno dei tre personaggi utilizza infatti un diverso canale di comunicazione. La voce della proprietaria della casa è la colonna sonora portante del film: grido stizzito, mormorio affannato o flebile sussurro, accompagna tutte le sequenze del film, infiltrandosi dal fuoricampo anche nelle poche inquadrature che non la vedono fisicamente protagonista. Voce che però satura lo spazio e il tempo della messinscena senza però conferire alcun significato: pregna ma non modifica, parla ma non racconta. L’operaio indaga il quadro animato racchiuso nella stanza attraverso il solo sguardo: unico canale di congiunzione tra l’esterno della terrazza, un “fuori” precluso allo spettatore, e l’interno dell’appartamento: uno sguardo che dovrebbe – o potrebbe – in qualche modo incarnare anche quello dello spettatore, divenendo medium capace di farci intravedere, e forse comprendere, i legami celati tra gli “abitanti” di quell’universo-mondo, ma che si rivela invece distaccato, per quanto voyeuristico e a tratti predace, e impossibilitato non solo all’azione, ma soprattutto alla relazione.
La comunicazione si rivela contraddittoria proprio nel suo essere poliforme e stratificata: i canali comunicativi talvolta sembrano intersecarsi e coniugarsi in una rete di senso – corrispondenze di sguardi, silenzi loquaci – ma si rivelano poi inevitabilmente sempre paralleli, o meglio, intrecciati in un arazzo di incomunicabilità. Non c’è interazione tra i personaggi, se non in potenza.
E’ invece l’anziano signore, privo di qualsiasi linguaggio, a riuscire infine a esprimersi, rivelandosi perno narrativo e centro gravitazionale del senso di una storia che forse senso non ha: un unico movimento esasperato, lento, che rigurgita disagio e malessere, lotta e resa, e infine si dilata nell’ambiguità silenziosa del finale, che viene lasciato alla nostra interpretazione. Un finale aperto, sospeso, con una nota drammatica circa le sorti del personaggio più anziano, ma che sicuramente disvela lasciandoci in bilico sull’enigma: Brodo di carne è un racconto di possibilità nell’impossibilità – l’affermazione del proprio (non) essere – e insieme ci lascia scoprire il vuoto comunicativo che corrode le relazioni umane e le maglie della realtà.

La sceneggiatura e il montaggio visivo e sonoro giocano sapientemente con la suspence, amalgamando alla perfezione gli ingredienti topici del thriller, questa costante tensione tra la stasi che si perpetua sullo schermo e l’esplosione narrativa che rimane potenziale: il dubbio e la sorpresa sono complementari all’ansia e all’eccitazione, innestando nello spettatore quella particolare sensazione di tensione propria del genere. Ma in Brodo di carne è proprio l’elemento della tensione, soggetta a escalation culminante nel climax nel canone thriller, a subire uno slittamento: variazione sul tema, e insieme centro propulsore del corto.
Nel film di Vittorio Antonacci questa sensazione rimane infatti sospesa, perdura con la stessa intensità durante tutta la durata del cortometraggio, oscillando senza subire picchi in positivo o in negativo. Assistiamo quindi ad un esempio filmico dove uno degli elementi chiave del genere, ovvero il climax, viene rimosso per dare spazio ad uno stato di tensione continuo ed omogeneo, un dubbio assillante a cui, semplicemente, è impossibile dare un’unica risposta. Dubbio che sapientemente viene creato, plasmato, dal nulla: non vi è, infatti, alcuna azione o dialogo che possa realmente dare origine a uno stato d’animo ansioso in chi osserva, eppure la ricezione di queste sensazioni è palpabile. Il nulla potenzia il dubbio.

La scelta estetica di un interno casalingo, l’uso della luce diffusa, la grana spessa e la composizione schematica degli oggetti all’interno dell’inquadratura riportano alla mente le tecniche di resa empirica utilizzate nella pittura olandese del XVII secolo. La visione intimistica di Brodo di carne, interamente girato in formato 4:3, è incrementata dalla fotografia delicata, quasi ovattata – curata da Gianluca Palma – che richiama metaforicamente la trama della zanzariera che il giovane è intento ad installare nell’appartamento.
Sul piano della regia, Brodo di carne presenta delle scelte visive e compositive interessanti, ad esempio l’uso continuo di piani dettaglio risulta essenziale nella costruzione del film. La prima immagine che ci viene presentata, infatti, è il dettaglio del bollore del brodo all’interno della pentola, cui seguono poi con una serie di piani dettagli sui volti, le mani, sugli oggetti di casa e di lavoro dei protagonisti. Miniature di un mondo in miniatura. Sintesi del tutto.

Merita soffermarsi anche sull’architettura della narrazione filmica, costruita attraverso un legame fondativo con il tempo della narrazione diegetica. Le due linee di narrazione, infatti, aderiscono perfettamente, per cui la dinamica raccontata dalle immagini corrisponde al tempo reale. Gli 8 minuti di durata complessiva di Brodo di carne contengono 8 minuti reali di azione, senza tagli di montaggio o jump cuts.
Nonostante la sua aderenza con le caratteristiche contenute nel genere thriller, Brodo di carne presenta un forte legame con il cinéma vérité (cinema verità) teorizzato da Edgar Morin: la propensione per l’autenticità di quello che si vuole mostrare e l’adesione al reale superano qualsiasi atto narrativo di finzione. Ed è proprio il reale a rivelarsi protagonista del cortometraggio di Vittorio Antonacci: un reale che emerge dalle tensioni istintuali ed emotive che pulsano sotto la superficie liscia della semplice gestualità del quotidiano, sintesi in 8 minuti dell’amalgama incoerente di pieni e vuoti, vite, storie, desideri taciuti e paure nascoste che si amalgamano nel “brodo di carne” in cui possiamo scorgere anche il nostro riflesso.
Leggi tutti gli articoli dedicati a questa edizione del Pentedattilo Film Festival e alle edizioni precedenti!
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