
Roger Ebert – L’eroe di cui avevamo bisogno
Roger Ebert era uno youtuber ante litteram. Primo giornalista di cinema a ricevere, nel 1975, il Premio Pulitzer per la Critica, Ebert era uno che masticava cinema; parlava di cinema; ma, soprattutto, che guardava cinema, amava il cinema, e che aveva assunto a missione personale la trasmissione del suo amore per il cinema al grande pubblico americano. «Uno dei regali più grandi che un appassionato di cinema possa fare a un altro – scrive Robert – è il titolo di un film meraviglioso che l’altro non ha ancora scoperto». E la sua vita, e opera, confermano quanto dichiarato in queste parole.
Roger Ebert nasce il 18 giugno 1942 a Urbana (Illinois) e fin dagli anni delle superiori e, poi, del college, dimostra una spiccata propensione per scrittura e giornalismo. Dopo aver militato nelle fila delle radio universitarie e aver iniziato un dottorato di ricerca, poi abbandonato, Ebert viene assunto, appena venticinquenne, come critico cinematografico dal Chicago Sun-Times, giornale di punta dell’omonima città e testata per la quale lavorerà fino alla morte nel 2013.
Ebert si distinse da subito per le sue posizioni anticonformiste rispetto alla linea prevalente nella critica statunitense di quegli anni: mentre i colleghi tendevano a trascurare i film più mainstream e commerciali per concentrarsi su indipendenti, avanguardie, produzioni straniere, Ebert si fece paladino della democratizzazione della critica cinematografica, sviluppando uno stile puntuale ma accessibile attraverso cui veicolare opinioni e riflessioni di grande livello ma che sapesse, allo stesso tempo, rispondere a una domanda fondamentale: questo film è bello?
Ebert parlava di film partendo dalla propria esperienza di spettatore, raccontandoli come si farebbe durante una conversazione fra amici. Fu proprio attorno alla “chiacchiera” a tema settima arte che nacquero due fortunati format televisivi che ebbero Ebert affiancato da Gene Siskel, critico per il giornale concorrente Chicago Tribune. Il primo fu Sneak Previews, trasmesso dall’emittente pubblica PBS e strutturato come dibattito tra i due critici su un titolo in programmazione nelle sale in quei giorni. I due iniziarono anche il rito del Pollice su, Pollice giù per classificare i film in “belli” e “brutti”. Una pellicola si poteva definire un successo quando avesse ricevuto due pollici su a significare l’accordo dei conduttori sulla sua validità. Il format fu replicato e portato avanti con At The Movies, dove Siskel ed Ebert discutevano di un più ampio numero di film ma sempre convintamente difendendo le rispettive, anche se discordanti, opinioni.
C’è una certa qualità nella fotografia a colori del Nosferatu di Herzog che ti penetra nelle ossa. Non basterbbe definirla ‘saturata’. È ricca, pesante, profonda.
– Roger Ebert
Per quanto Ebert, sul suo sito web, abbia catalogato 300 pellicole nella sua lista di personali “Great Movies” a 4 stelle (o, appunto, film belli, o bellissimi), il critico americano è rimasto famoso, nell’immaginario comune, per le recensioni incredibilmente tranchant e negative che ha saputo produrre di alcuni film. Basta leggere il titolo (A child kills and is bloodied, hahahaha) e il rating a una stella che Ebert fornisce con la recensione di Kick Ass (Matthew Vaughn, 2010) per capire che il film, per Roger, non era per niente bello. In questo senso, si potrebbero indicare a eredi di Ebert i critici del Guardian. Peter Bradshaw, stabile collaboratore del sito britannico, titola così la sua recensione dell’ultimo adattamento per il grande schermo (Tom Hooper, 2019) del musical Cats (1981) di Andrew Lloyd-Webber: A purr-fectly dreadful hairball of woe, che in italiano suonerebbe qualcosa come Una palla di pelo purrrfettamente terribile e deplorabile.
La recitazione di Bill Murray in Lost in Translation di Sofia Coppola è di certo una delle più squisitamente controllate che abbia visto recentemente. Senza di essa, il film sarebbe inguardabile.
– Roger Ebert
Ebert era però anche maestro dell’elogio. I pezzi di critica per raccontare i suoi Great Movies scorrono in prosa fluida, ironica e appassionata, e non si fanno mancare né sprazzi di poesia né momenti di rigore argomentativo. Il gusto di Ebert si dimostra, ancora una volta, eclettico e fuori dagli schemi: non solo Mulholland Drive (David Lynch, 2001), La città incantata (Hayao Miyazaki, 2001) e Nosferatu – Principe delle tenebre (Werner Herzog, 1979); tra i suoi film preferiti si trovano anche controverse pietre miliari come Nascita di una nazione (D. W. Griffith, 1915) e Nanook del Nord (Robert J. Flaherty, 1922).
Al termine di una lunga lotta con una malattia che lo aveva sfigurato e reso quasi incapace di parlare, il lascito di Roger Ebert è un’etica della scrittura e una non-disponibilità a scendere a compromessi intellettuali. Non credo di poter dire facilmente se concordo o no con il metodo-Ebert per la critica cinematografica. Roger, però, ha lasciato il segno. Spesso si sente la mancanza degli eroi che (forse) non ci meritavamo proprio quando non li vediamo più in circolazione.
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