
Rudolf Nureyev, satiro del balletto novecentesco
Figlio di una Russia che provò a cancellare dal suo passato, Rudolf Nureyev, satiro del balletto novecentesco, ne ereditò lo spirito mistico e ne rifiutò i confini rigorosi. Il satiro Nureyev nasceva esattamente ottantadue anni fa su un treno, la Transiberiana, diretta da Ufa a Vladivostok, in una terra antica e pagana. Come il Tadzio di Mann, era un giovane virgulto, circondato da tre sorelle, principesco ed energico nonostante la fame e il freddo che ne segnarono l’infanzia. Fu naturale per il ragazzino tartaro frequentare i gruppi folcloristici che passavano da Ufa e bastò una primissima formazione con Igor Moisseiev per mostrare una dirompente attitudine al ballo.

Il nomadismo lo spinse a muoversi, ancora acerbo, verso Leningrado: preferì la scuola di Kirov al più blasonato Bolshoi, il metodo Vaganova ai fasti ottocenteschi del teatro nazionale. Recalcitrante, curioso, smunto e vestito dello stesso cappotto e dell’unica, sottile sciarpa che aveva portato con sé dalla città natale, lavorò intensamente sotto la guida paterna di Puskin, che ne conosceva il temperamento e l’animo inquieto. Imparò a contemperare la disciplina ferrea con il tempo ramingo che si ritagliava per visitare l’Hermitage e il Museo d’Arte Russa, per conoscere van Gogh, Dostoevskij e Skrjaskij, che elesse a numi tutelari del suo spirito, nutrendosi della loro generosità e della loro violenza.
Il primo vero viaggio fu per Mosca, in occasione del concorso nazionale di balletto classico. Nella vetrina più importante della Russia, rappresentò il Kirov con un pas de deux del Corsaro di Minkus-Petita: fu un trionfo. Al Kirov aveva appreso il glorioso repertorio della tradizione accademica russa, prodotto dall’incontro tra il teatro Marjnskij e i coreografi francesi e italiani che nell’Ottocento trovavano a Pietroburgo un florido ambiente creativo. Ma ormai il tempo delle avanguardie era finito e il modello zdanoviano si era imposto costringendo gli artisti a diventare dissidenti. E proprio a Mosca, nell’incontro con i ballerini del Bolshoi, Nureyev ebbe la folgorante impressione che i danzatori al Kirov erano come ratti nel serraglio, senza alcuna possibilità di innovare un repertorio superbo e stagnante allo stesso tempo.

Con Kruscev, per cui Nureyev aveva danzato – sentendo il ricatto che quel tavolo imbandito rappresentava per l’arte russa – cominciarono gli scambi internazionali. Il 1959 fu l’anno del Festival Internazionale della Gioventù, dove l’entusiasmo ancora inesploso del giovane cosacco colpì Roland Petit. Ma di lì a poco sarebbe esploso.
Due anni dopo, il Kirov fu ospite dell’Opéra. La lunga mano del KGB seguiva ovunque il giovane danzatore, che si era già fatto qualche nemico nelle stanze del potere e nelle gerarchie del Kirov. Sulla scena trionfò con un Solor (Bayadére, Ludwig Minkus, 1877) sensuale più che bellicoso, risvegliato nel divertissement del secondo atto tra danze di carattere, tigri, ventagli e grand pas. Della Bayadére Nureyev avrebbe poi coreografato con accenti nuovi il ballet blanc, la danza delle ombre morte, che gli consentiva di combinare il purissimo accademismo con l’esotismo delle sue radici, la danza di carattere con il dramma interpretativo.
Divenne noto a tutti come lo Sputnik, o the white crow: letteralmente, volava fino alle stelle. Convinse persino Serge Lifar, direttore dell’Opera, che gli riconobbe i meriti sufficienti per ottenere il premio Nijinskij. Con il suo inglese spicciolo e la giacca blu scuro di foggia sovietica, conobbe Claire Saint – fidanzata con il figlio del ministro della Cultura Malraux – e insieme cenarono da Dominique a Montmartre e vagarono per le librerie di Rue Rivoli. Chère Paris, con i suoi boulevards, i concerti di Bach nelle tiepide sere di inizio estate, le insegne luminose. E fu proprio a Le Bourget che rifiutò il biglietto per il Cremlino salutando per sempre le steppe russe: era diventato un rifugiato politico in Francia, assediato dai giornalisti, dagli incubi, dal ricordo dei cari per molti degli anni che seguirono.

Cominciò la sua vita in Europa. A Londra lo aspettava la Compagnia del marchese di Cuevas che aveva rilevato l’eredità dei Ballets Russes di Diaghilev e li aveva trasformati nei Ballets de Montecarlo negli anni Quaranta. Di lì erano passati tutti i nomi russi, Lifar, Balanchine, e non mancò il cosacco Nureyev. Dalla benevolenza del vecchio marchese si staccò quasi subito, raggiungendo Erik Bruhn, danseur noble danese che gli fu amico e maestro. Tornato a Londra, Margot Fonteyn – che ballava da prima che Nureyev nascesse – lo volle al suo fianco: l’intesa fra i due fu immediata, e avrebbe regalato alla danza quindici anni di capolavori. Rudy, abituato a ribaltare il ruolo tradizionale del ballerino – che era quello di illuminare romanticamente le attitudes della ballerina –, divise equamente il palco con Margot, sempre omaggiandola e rivolgendole una misurata devozione.
Si instaurò un equilibrio preciso tra l’irruenza rovente di lui e la placida solarità di lei, tra i virtuosismi e la forza atletica. La riservatezza elegiaca di lei tratteneva il lirismo di lui, i suoi impeti grezzi assunsero poeticità finché l’esuberanza fisica di Rudy non fu in grado di echeggiare la spiritualità potente di Margot.
I due, che intanto spaziavano dal Lago dei Cigni di Tchaikovsky al Marguerite and Armand di Frederick Ashton, erano attesi, con un misto di rispetto e curiosità, in Italia. Nel 1962 fu la volta del Festival internazionale del Balletto di Nervi, a cui seguì il Festival dei due mondi di Spoleto. Quando la Scala di Ghiringhelli fu pronta a sfidare il Bolshoi, il tempio milanese si aprì a Nureyev, che incontrò l’eterna Giulietta italiana: Carla Fracci. La diva incarnava l’ideale romantico della danza di cui accentuava il candore e la dolcezza: questa spiritualità accogliente e sospesa le consentiva di essere Giselle, e Silfide, e la giovane fanciulla dello Schiaccianoci. Nureyev, ne amplificò la grazia e la trasformò in virilità, con una presenza che irradiava una passione impetuosa: danzò con Fracci un Albrecht che diventa uomo nella morte, e fu anche l’Educatore hoffmanniano della giovane Clara. Sempre celò nei suoi ruoli un Abelardo cupo e poi radioso, mentore e compagno, nel perfetto equilibrio tra reale e immaginifico.

Si divise tra il Royal e il New York City Ballet, fu Petruska e Sigfrido, protagonista ora addolorato ora trionfante, con una particolare predilezione per l’esotismo cangiante. Fu Lucifer per Martha Graham, che in lui vide la divinità dell’artista “che porta luce”: seppe infatti restituirle la religiosità primitiva che la danzatrice ricercava nel popolo americano e che lui portava in sé dai sacrifici delle terre russe. Apprese da Marika Besobrasova a fondere la tecnica accademica con altre possibilità di movimento, come lo yoga e il pilates, in un’ibridazione tra spirito e coscienza, adamantina accademia e dinamicità stilistica. Ribaltò le gerarchie dei teatri, deviò dai canoni, mantenne tanto la sinuosità felina che il portamento regale. Innovò il repertorio classico russo di cui apprezzava i toni arabeggianti dei costumi e del décor, per un suo sogno di lontananza incarnato nelle danze folkloriche dell’infanzia, e fuse in sé l’estetica esotica e il gesto accademico, interrogando sempre a fondo le ragioni dei suoi personaggi.

Era incline ai rapidi cambiamenti d’umore, spaziava dallo struggimento amoroso alla furia, tenero e brutale, enfatico e languido. Nureyev era tanto la maglia a girocollo che la giacca di camoscio, e sembra che Nietzche avesse in mente lui quando, nella Nascita della tragedia, legava lo sviluppo dell’arte alla lotta e alla riconciliazione periodiche tra apollineo e dionisiaco. Nureyev era il busto greco, esempio prodigioso della perfezione scultorea, che si prestava all’arte non figurativa della musica, in un aperto, eterno dissidio. Collocato tra il sogno e l’ebbrezza, nella comprensione immediata della tecnica percepiva come in un’idea di illusione, come il gioco delle ombre della Bayadere dietro il velo schopenaueriano della forma.
Fu quello sguardo dionisiaco che lo salvò dall’orrore e dallo sconforto, come Dioniso si sottrasse alla furia dei Tartari per la generosità delle ninfe in Eolicona. Celato in una grotta, nutrito di miele, il dio delle follie e del vino vagò, trionfante ed effeminato, portando con sé la gioia e il terrore. Come nel simbolismo del corpo dei Satiri e delle Menadi nei riti bacchici, quella furia pagana si riconciliò con la perfezione del passo di danza. Un equilibrio perfetto che fu solo della tragedia attica, o dei balletti di Nureyev.
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