
Dal divieto all’eccesso scenico – piccola selezione da Resistere e Creare
Giunta alla VII edizione, Resistere e Creare, rassegna internazionale di danza contemporanea a cura di Marina Petrillo (Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse) e Michela Lucenti (Balletto Civile), fa da antidoto alla lunga stagione di divieti imposti al corpo dal coronavirus, dichiarando apertamente nel titolo “Vietato ballare” il monito che intende esorcizzare con la sua azione performativa corale. Capillare la dimensione di questa edizione, che dal 25 settembre al 10 ottobre dal Teatro della Tosse si è sviluppata lungo le strade genovesi – i Teatri di S. Agostino, Il Teatro del Ponente, le strade e le piazze del Sestiere del Molo e di Voltri – riattivando tutti i luoghi di cui la memoria corporea aveva perso l’abitudine, riappropriandosi della dimensione pubblica come campo d’azione e della possibilità di condividere con gli altri il movimento come linguaggio.
Il bisogno di sconfinare da un’azione performativa all’altra, cifra stilistica classica di Resistere e Creare, è particolarmente urgente in questa edizione: la “danza contemporanea” si trasforma in un contenitore scenico eterogeneo che coinvolge teatro fisico, musica dal vivo, esibizioni circensi, danza, riti. Ma soprattutto, l’intento delle azioni raccolte nella rassegna è quello di sconfinare dal concetto stesso di “individualità”, destrutturando il confinamento monocellulare del lockdown per riedificare la dimensione polifonica dello spettacolo. È allora sull’equilibrio sinergico ma fragile tra uno e molti, individuale e collettivo che i vari artisti coinvolti riflettono: la coabitazione di danza, musica e prosa come forme egualitarie e non ancillari di scrittura della performance e, d’altro canto, la dimensione umana collettiva imperante sul palcoscenico, un macroscopico “over-acting” non sempre facile da gestire.

Traces – Wim Vandekeybus
Premiato come miglior performance del 2019, Traces è la testimonianza più intima della storia artistica del visionario coreografo belga Wim Vandekeybus, la “traccia” del suo passato estetico, un’indagine filologica che recupera le fonti di un immaginario tanto personale quanto popolare. Il coreografo lavora sull’imprescindibile rapporto biunivoco tra individuo e collettività, natura e cultura popolare, ricreando per la scena un ensemble di movimento, suoni e parole in grado di ritrarre l’azione sinergica di più attori-danzatori. Dieci ballerini testimoni di dieci culture e lingue differenti popolano la foresta balcanica ricreata al Teatro della Tosse – scenografia che si ispira ai lavori fotografici in bianco e nero di Josef Kouldelka sui viaggi dei gitani in Romania – immergendoci nella selvaggia e vorticosa attività quotidiana della tribù come categoria del collettivo.

Fughe, giochi, feste, rappresaglie e aggressioni, lo spettacolo passa in rassegna una lunga serie di “momenti” collettivi in cui il movimento funge da indice di lettura. Eccezionale la consapevolezza corporea dei danzatori in scena, in grado di sintetizzare con estrema efficacia danza e recitazione, movimento coreografico e movimento scenico puro. Teatro-danza che quasi fa quasi eco al musical come dimensione corale protagonista, un West Side Story dell’Est dove la gang balcanica si aggira nella foresta nel suo continuo tentativo di dominarla. La presenza della figura animale – nei tre uomini-orso in scena – calca la mano sul binomio umanità-animalità cercando di mostrare la dis-umanità come componente connaturata all’uomo e, per esteso, al corpo in quanto suo motore materiale. Debole, però, la nervatura di una drammaturgia che più che “narrare” corpi liberi oltre ogni imposizione normativa, accalca lunghissime scene spesso tra loro prive di un senso di continuità, tanto da impoverire il racconto e consegnare allo spettatore una carrellata – troppo lunga – di momenti singolarmente apprezzabili.
Figli di un Dio Ubriaco – Balletto Civile
Ispirato ad un lavoro commissionato alla Compagnia sulla musica barocca in scena, Figli di un Dio Ubriaco coniuga la riflessione sulla forma barocca e sulle forme del contemporaneo come linee plastiche dall’indomabile misura. Balletto Civile, che da anni lavora sul corpo come superficie significante e non solo come mezzo artistico, individua nella natura del Barocco un canone gemellare a quello ideologico del mondo post pandemico. Confuso, fragile, imperfetto, l’uomo come individuo e come forma fa eco all’imperfetta, perché eccessiva, tracotanza barocca. Balletto Civile mette in scena questo dialogo architettando un’eccentrica coabitazione tra i Madrigali di Monteverdi eseguiti dal vivo e la danza della contemporaneità. Una fabbrica e il microcosmo umano che la mantiene attiva: tantissimi gli attori in scena – dai 9 ai 76 anni – titanici anti-eroi incarnati nell’organico di una fabbrica di materiale plastico. La scena è pensata come una grande griglia mobile, una scacchiera luminosa e elettrica a comando, lungo la quale piccoli gruppi, coppie o singoli attori-danzatori raccontano la propria porzione di storia danzata, mantenendo quadrangolare – quasi un eco meccanicista ai motori degli ingranaggi – il loro perimetrare lo spazio.

Concepito come un lungo nastro a pellicola dal serratissimo montaggio, le micro-scene si alternano sul palco, si incrociano, si sovrappongono quasi come elaborate su una timeline di lavoro. Il palco, però, ha la virtù di comprendere sullo stesso piano visivo ogni componente scenica e il vizio di farcene perdere la prospettiva, così Balletto Civile concepisce uno spettacolo parzializzabile, dove lo spettatore sceglie le linee narrative e coreutiche da seguire. Da sempre attento alla politicizzazione dell’azione performativa, Balletto civile non può coreografare per il mero bisogno estetico, ed è così che la squadrata eppure ribelle partitura seguita dai corpi in scena sottende il bisogno di scardinare l’ordine quando algoritmo sociale nocivo e di prendere coscienza della propria identità corporea. Anche qui l’inalienabile dimensione del collettivo riempie la scena, e seppur gestita con un’abile regia, di mano quasi cinematografica, eccede forse nella durata, affaticando lo spettatore già ricettore di un’enorme quantità di imput visivi.

Pur decodificato in modi differenti, appartiene a entrambe le performance il febbrile bisogno di eccedere nell’espressione, necessità giustificata e, in qualche modo, reazione equivalente alla lunga inerzia imposta al corpo artistico durante la pandemia. Resta alquanto fragile il materiale da modellare per riuscir a sorreggere tutto questo non-detto e non-visto che insiste per essere messo in scena. La rassegna di danza contemporanea Resistere e Creare conferma, in ogni caso, la sua natura duttile tanto all’avversione quanto alla sperimentazione artistica, invitando artisti e spettatori a partecipare ad un lungo e largo laboratorio di riflessione sullo stato dell’arte performativa, sui suoi mali e sulle possibili e somministrabili cure.
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