
La saggezza del rischio – Intervista a Giovanni Ortoleva
Illustrazione di Elia Sampò
Abbiamo visto in prima assoluta alla Biennale Teatro I rifiuti, la città e la morte, prodotto dal Teatro della Tosse – Fondazione Luzzati, testo di Rainer Werner Fassbinder e secondo spettacolo del promettente regista Giovanni Ortoleva, che abbiamo intervistato per #Birdmen8 – Futuro.
Porti in scena un testo complesso, stratificato, uno dei più grandi casi di censura della Germania post-nazismo. Come lo descriveresti?
È la storia di una giovane prostituta di nome Roma che cerca il suo posto nel mondo. Nonostante gli sforzi, non riesce a portare i soldi al suo compagno-pappone, finché non viene presa sotto l’ala da un ebreo che la rende ricca per screditare il resto della città. È uno speculatore edilizio ‒ Fassbinder lo chiama solo «il ricco ebreo» –, ma anche colui attraverso il quale la città si rinnova. Come il mercante di Venezia, è colui che può toccare i soldi, la merda, il più ricco, ma anche il capro espiatorio.
Il testo è stato censurato per antisemitismo. Il vero problema era che Fassbinder prendeva di mira uno speculatore edilizio ebreo dell’epoca “protetto” dalla città. Lo stesso autore ha affermato che quei fatti sono verificabili perché avvenuti a Francoforte.
Fassbinder diceva che «un regista gira sempre lo stesso film»: i suoi film e il suo teatro parlano sempre di sfruttamento dei sentimenti altrui. Nel testo ci sono rapporti di sfruttamento affettivi e sociali: anche il ricco ebreo viene usato. Dunque, è una gangster story, una storia d’amore, ma più di tutto è una passione di Cristo al femminile. Roma è una giovane cristiana che si chiede come si fa a essere buoni, ad amare e a essere amati, e che alla fine decide di donare la vita perché non riesce a vivere, a essere felice. È la storia di una passione, ma non confligge con la contemporaneità, confligge piuttosto con la natura umana. Da un certo punto di vista lei è una Christa patiens. Soffre in un mondo in cui tutti interpretano la sofferenza. Eppure, l’unica che soffre davvero è lei, che non si lamenta mai.

Come mai hai scelto questo testo?
Mi piace da molto tempo e quando Antonio Latella, direttore della Biennale Teatro, mi ha chiesto di portare un pezzo che avesse a che fare con la censura ho risposto alla chiamata. Ho avuto molte ritrosìe anche perché ha diciannove Personaggi: io lo realizzo con sette attori e in uno periodo storico come questo è difficile.
L’ho scelto perché lo trovo il più bel testo di Fassbinder e perché tratta questioni problematiche. Se rappresentare un ricco ebreo come un uomo, quindi anche come una merda, perché gli uomini spesso sono merde – e nei testi di Fassbinder lo sono tutti, escluso qualcuno – è un problema, vuol dire che c’è un problema nella società attuale e io voglio prenderlo di petto. C’è un appiattimento delle narrazioni che non sopporto più: sta diventando un problema rappresentare un membro di una minoranza come un personaggio non solamente positivo, ma come un essere
umano, senza ipocrisie, fuori da una narrazione consolatoria per cui la minoranza è buona. Sono continui atti di razzismo – questo Fassbinder lo diceva molto chiaramente – perché deumanizzano le minoranze. Ciò sta succedendo senza che nessuno alzi la mano.
Credo che se vogliamo raccontare il presente ci sia bisogno di scrivere grandi storie, che raccontino la complessità di quello che viviamo. Fassbinder lo faceva, riuscendone a fare davvero un racconto corale. È molto difficile trovare una penna sia abrasiva sia comprensiva. Fassbinder per me è stato davvero uno dei più grandi autori del secondo Novecento, se non il più grande. Nella sua imperfezione era immenso, veloce. Riusciva a prendere tantissimi ingredienti e a metterli insieme, un grandissimo cuoco. È uno dei pochi che ha davvero fatta sua la frase di Beckett: «Fallisci, fallisci ancora, fallisci meglio». Falliva spesso, ma sempre puntando più in alto.

Punti su una figura artistica e umana difficile e su un testo dalla storia travagliata: una scelta coraggiosa e rischiosa per un giovane regista. Mi viene in mente l’idea che per te il fallimento – nodo esistenziale e possibile conseguenza di un rischio – non sia qualcosa che scalfisce, ma che fortifica, quasi fosse un elemento costitutivo dell’uomo. Come la vedi?
Ci sono testi, storie, apologhi, pezzi musicali forse poco immediati, ma che sento che mi riguardano, che riguardano la nostra epoca, per cui non ho paura di fare un po’ di fatica per portarli alla nostra attenzione. In Italia non si sperimenta davvero e non si coglie il rinnovamento in atto in tutte le arti performative. Mi sembra che la gran parte del teatro sia come il catasto: va avanti con le sue logiche per accumulazione. Però, sono felice che in Italia ci siano anche persone – soprattutto giovani, ma non solo – che lavorano in un modo che sento simile al mio, con cui mi sento affine. Mi sento tra quelli che hanno voglia di mettere in discussione il “Palazzo”, e questo non deriva solo dalla giovane età, ma da una curiosità diversa. Siamo pronti al rischio, più che al fallimento. In questo momento, c’è bisogno che il teatro corra dei rischi: la mia più grande gratitudine va infatti alla Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse di Genova, che ha deciso di rischiare investendo sul mio lavoro dal 2019.
In un’intervista ho letto che senti la necessità di parlare di soldi. Che cosa intendi?
I soldi sono il motore di molte cose, ma rimangono sempre fuori perché sono “sporchi”. Questo lo trovo folle. Vengo da una famiglia in cui si creavano molte discussioni ogni volta che si nominavano e dunque per me poter parlare di soldi è un atto liberatorio. Dal 2008 poi i soldi sono la grande questione del mondo. In un periodo come questo, in cui sono anche pochi, è una questione importante e credo ci sia bisogno di parlarne molto. Fassbinder lo fa, tantissimo. Tematizza sempre i rapporti con i soldi. La questione del testo è che il ricco ebreo li sta succhiando tutti. Il grande problema è trovarli. Nella sua scrittura c’è una spudoratezza che è meravigliosa, e rara. Bisogna poter parlare di soldi a teatro: le storie non possono riguardare solo i sentimenti, sono solo una parte della realtà, una parte molto limitata e consolatoria.

Quali prospettive vedi per il teatro in Italia?
Credo che Antonio abbia dato una grande spinta nella direzione del puntare le luci sui giovani, lo trovo molto coraggioso. C’è gente davvero interessante in Italia, anche guardando ai più giovani di me. Bisogna solo che i teatri e i produttori capiscano che rischiare coi giovani in questo momento non significa rischiare, ma puntare sulla qualità, perché c’è della roba incredibile. Anche se non esiste un vero movimento, io sento delle forze molto belle e interessanti che si muovono accanto a me.
Che rapporto hai col cinema?
Sono cresciuto in una casa dove si parlava, si masticava e si cagava cinema. Mi è sempre piaciuto da impazzire e al liceo scrivevo sceneggiature. Poi ho avuto brutte esperienze e un grande rigetto. Invece durante la quarantena vedevo un paio di film al giorno. Su suggerimento di un’amica ho ripreso a scrivere e presto girerò il mio primo corto, sceneggiato e diretto da me con direttore della fotografia e co-sceneggiatore Bartolomeo Pampaloni. Si chiama Autoritratto con arma, prodotto da Berta Film. Lo gireremo appena nevica.
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