
“Hokuspokus” di Familie Flöz – Tutto in una vita
L’assonanza magica del titolo è già in sé una dichiarazione, quasi un’evocazione d’intenti: la formula magica “hocus pocus” (che è riportata nella trascrizione tedesca con le “k”, senza lo spazio) del far accadere qualcosa, dell’accedere alla regia della realtà perché questa si muova secondo il proprio volere. Ed è proprio attraverso le sfumature dell’accadere – dentro e fuori la situazione – che si muove Hokuspokus, produzione di Familie Flöz che ha concluso le date italiane della sua tournée al Teatro della Tosse di Genova, dove la compagnia tedesca è ormai di casa, trovandovi uno spazio ideale in cui presentare lavori dalla leggibilità universale, eppure dalla spinta radicalmente ancorata a un lavoro di ricerca unico e personale.

La scena – che è scena nella scena, con un una scatola aperta e infinitamente duttile al volere dell’accadere, al centro di un palco che è anche altro – si presenta come un laboratorio creativo in attesa, con strumenti musicali (dall’immediato richiamo berlinese), microfoni, un tavolo di lavoro, proiettori e strumenti di ripresa. Il tutto a circondare il luogo dove la creatività in potenza si fa attuale, dove il mondo è preso e posto al proprio centro, quasi a richiamare l’effetto di spontanea generatività narrativa che avevano le sitcom televisive quando ancora erano realizzate in diretta col pubblico in studio, lasciando che il racconto si lasci accadere: due pareti, quasi membrane di un intero universo, sono supporto vivo del cosa e del dove di Hokuspokus, soglie magiche di trasformazione dei sei artisti di Familie Flöz.
Nulla in Hokuspokus è dato a priori. Lo spettacolo stesso è un’immagine leggera e delicata di come le idee di “creazione” e di “vita” possano intrecciarsi e muovere insieme, in un incedere di situazioni che sono eterne rinascite e inafferrabili punti di svolta di esistenze familiari in una doppia accezione: da un lato perché la famiglia è il motivo portante del racconto, un ulteriore far accadere in cui i protagonisti investono tutta la loro esistenza; dall’altro perché ogni piccola situazione, nella sua dirompente sincerità, non può che trovare il riscontro nelle vite degli spettatori, parlando un linguaggio privo di parola, eppure così profondamente eloquente da portare a risate esplosive e momenti di intensissima commozione.

Prima di tuffarsi nel racconto di una vita, Hokuspokus mette radicalmente in scena la Creazione: quella delle maschere – strabilianti, dall’espressività talmente potente da rendere i corpi smascherati meno reali, posti fuori dall’esistente – e dei due protagonisti, che non nascono, bensì iniziano ad esistere nel momento in cui la maschera trova il proprio corpo, si scopre mobile, sonora (ma, ancora e necessariamente, non davvero parlante), si riconosce nell’altra persona e accade, come accade il mondo al suo intorno. I due protagonisti al centro della vita raccontata sono due Adamo ed Eva la cui esistenza comincia quando il loro trovarsi è l’inizio di un noi densissimo di possibilità, affrontato attraverso la quotidianità dell’incedere del vivere.

Hokuspokus diventa la forma narrativa di come Familie Flöz costruisce il proprio percorso nella scena, rappresentando tanto il racconto quanto gli strumenti del farlo, chiedendo allo spettatore di muovere la propria attenzione da dentro il reale dell’accadere al fuori del far accadere, restituendo una dimensione poetica anche a quelle figure del far teatro che normalmente si danno come invisibili. Gli attori, nel momento in cui sono presenti senza maschera, muovo i fili del racconto con una tenerezza gestuale che rende l’andamento inevitabilmente nostalgico, ammantato della morbidezza di una vita che viene naturalmente vissuta e condotta, anche nello scontro, persino nella tragedia, fino all’invecchiamento.

L’esistenza scenica in Hokuspokus finisce nel modo in cui è comincia: come non era presente la nascita, non è presente neanche la morte, ma solo la separazione tra il corpo e il volto/maschera, a sancire un’unione che è solo ricordo, traccia messa in forma dal dispositivo filmico, che cattura e congela l’immagine sul punto di lasciare l’universo dell’accadere, liberando i corpi attoriali dei protagonisti dal percorso narrativo che sono chiamati a compiere in tutte le dimensioni, dal movimento al suono. Perché se è vero che la parola resta distante dall’intreccio drammaturgico di Familie Flöz, un ruolo centrale acquisisce la voce nella sua dimensione puramente sonora, come canto – sempre creatore, magico nel suo dare moto all’azione – e come effetto di un dialogo privo di linguaggio che anche nel suo avvenire ha già la dimensione del ricordo.
Con Hokuspokus si conferma la capacità di Familie Flöz di scavare nella profondità dell’emotivo, attraverso un racconto che parlando del quotidiano apre spiragli attraverso l’eterno, lungo le pieghe di ciò che del quotidiano è condizione di possibilità, consolidando con quest’ultima tappa italiana la vicinanza d’intenti e di linguaggi con Teatro della Tosse, la cui storia ed identità risuona brillantemente attraverso il lavoro e la ricerca della compagnia tedesca, tra innovazione e tradizione perfettamente intrecciate. Non si può che restare in attesa del prossimo lavoro di Familie Flöz, con la curiosità di scoprire quali volti renderanno scenicamente vivi i corpi attoriali di performer dalla capacità espressiva eccezionale e dall’attenzione chirurgica nel generare mondi densissimi e universali.
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