
Fassbinder secondo Ortoleva – Tenebra e splendore a perdifiato
Paura, sopraffazione, miseria, avidità, violenza: gli elementi essenziali del testo più censurato di Rainer Werner Fassbinder – I rifiuti, la città e la morte (1975) – basterebbero, da soli, a sferrare un pugno nello stomaco, ma Giovanni Ortoleva sceglie di spingersi oltre.

I rifiuti protagonisti della vicenda sono persone miserabili e meschine, affamate di vita, ma destinate alla sconfitta, sopraffatte dalla paura, dal senso di colpa e dall’impotenza. Schifate all’idea di poter a malapena sopravvivere, pronte a rivendicare il proprio diritto a splendere, nonostante (o forse proprio in virtù di) una vita di stenti. L’ambientazione è la Germania sconfitta del secondo dopoguerra, ma la vicenda è traslabile in un qualsiasi contesto di lotta tra poveri.

Domina l’oscurità nell’opera di Fassbinder, ma quel che colpisce della regia di Ortoleva è la potenza con cui riesce ad amplificare l’elemento in luce. Questo aspetto, che nel testo s’intuisce appena, in scena è potenziato fino a diventare sfolgorante, prima di essere nuovamente inghiottito dalle tenebre, lasciandoci con ancor più amarezza.
Non a caso, la prima impressione, di fronte all’allestimento scenico, richiama il mondo raffinato dell’alta moda: una passerella su cui far sfilare creature splendidamente vestite, sgargianti ed eccessive nella loro bellezza, desiderose di brillare. Al tempo stesso intuiamo che la struttura su cui ha luogo la sfilata ha la forma di una croce, come le antiche basiliche dalla pianta a croce latina. Scopriremo presto che lo spettacolo di Ortoleva, fedele al testo di Fassbinder, vive di accostamenti tra sacro e profano, Passione e blasfemia, colpa ed espiazione.

Nel disegnare questo gioco di contrasti, I rifiuti, la città e la morte – produzione del Teatro della Tosse presentata alla Biennale Teatro 2020 – narra una vicenda umana già di per sé difficilmente riconducibile a una trama lineare.
Il primo elemento di complessità è costituito proprio dall’elevato numero dei personaggi, 19 in tutto nel testo di Fassbinder, interpretati dai 7 ottimi interpreti scelti da Ortoleva. La regia può contare, in particolare, sulla versatilità di Anna Manella ed Edoardo Sorgente che, insieme, danno vita a più della metà dei personaggi: quel sottobosco di umanità che permette alla vicenda di ritrarre una collettività.

Una giovanissima prostituta, Roma B., sopravvive a stento tra paura e solitudine, imbrigliata in una relazione tossica e violenta con un uomo ludopatico, Franz B.
A dare corpo e voce a questi due personaggi Camilla Semino Favro, che riesce a evitare il rischioso registro (melo)drammatico, arrivando spietata e senza fronzoli al cuore del pubblico, e Marco Cacciola che non si risparmia e risulta davvero magnetico nelle scene più movimentate.

Ti picchio dato che ti amo è l’imperativo di questo rapporto malsano che alimenta la dipendenza tra due persone sconfitte, per cui l’amore non è altro che il diritto di uno e l’impotenza dell’altro.
Io non ho opinioni, io ti amo – afferma convinta Roma B. rivolta a Franz B. – non avevo che te e le tue botte che mi hanno aperto gli occhi.
La ragazza, inoltre, si ritrova talvolta ad avere come cliente il proprio padre (interpretato dal bavarese Werner Waas), ex SS nostalgico che sogna il trionfo del fascismo e che inganna il tempo esibendosi come cantante en travesti in locali notturni malfrequentati.

Su tutto incombe la città con la sua inesorabile volontà: una città votata alla distruzione e che divora i propri figli. Apparentemente ricca di possibilità e potenzialmente adatta a esaudire ogni desiderio, la città, in realtà, esattamente come la vita, non offre certo libertà di scelta, ma esige il suo tributo. Colpa, espiazione, invidia, odio razziale e desiderio di vendetta trasudano dai dialoghi che si alternano a ritmo serrato, dando concretezza al vissuto dei bassifondi di una città, una comunità, che fatica a sopravvivere a sé stessa. La città diventa ogni giorno più grande. E gli uomini che la abitano sempre più piccoli osserva lucidamente una prostituta che lavora con Roma B.

Basterebbe questo per assecondare il desiderio di denuncia sociale e di intrighi morbosi apprezzati dagli amanti delle gangster story, ma, in tal caso, si tratterebbe solo di un bel mix di “ingredienti alla Fassbinder”.
Nell’allestimento di Ortoleva il testo di Fassbinder – crudo, movimentato da registri linguistici estremamente vari e ricco di allusioni alla contemporaneità e alla storia – non si semplifica, anzi s’infittisce, fino a sprigionare tutta la propria energia, devastante e ipnotica.

La chiave di volta è un personaggio paradossalmente anonimo, noto come “il ricco ebreo”, che, grazie all’interpretazione di Gabriele Benedetti, si rivela come il vero protagonista e l’unico burattinaio della vicenda. Silenzioso, immobile e incombente assiste alla prima parte dello spettacolo per farci capire, non appena prende parola, come, fino a quel momento, fosse mancato qualcosa.

È lui l’ebreo che con i propri investimenti edilizi sta permettendo alla città di cambiare volto e, per questo, è rispettato e detestato al tempo stesso dai propri concittadini. Desideroso di limitare la propria solitudine, sceglie di iniziare a proteggere Roma B. che finirà condannata al suo stesso isolamento, sommersa dal lusso, pagando senza sconti il prezzo della propria ascesa.
Ti ho amata nel sudiciume, nel fango. Per il lusso i miei sentimenti non bastano si giustifica Franz B. quando sceglie di allontanarsi da lei, senza sapere che la separazione è il minore dei mali che aspettano Roma B.

È grazie al ricco ebreo che capiamo che tutti i personaggi coinvolti hanno in comune il terrore di rimanere stritolati dalla propria esistenza. Per questo motivo, sono disposti a tutto, anche ad annientarsi a vicenda, pur di assaporare almeno qualche istante della vita sfavillante che rivendicano di diritto.
Lei non disprezza più gli uomini. Ha forse dimenticato che una delle regole del gioco è disprezzare gli uomini che pagano l’amore? […] Per gli uomini, lei è diventata un fratello, e per le sorelle una nemica. Così le prostitute con cui Roma B. lavorava abitualmente le rinfacciano di averle rinnegate, e le voltano le spalle, offese dalla sua ascesa, immeritata per colei che non ha dimostrato di desiderarla abbastanza.

È la paura quindi, mescolata all’invidia, a muovere tutti i personaggi e a incentivare i comportamenti più violenti: senza paura, voialtre non potreste vivere. Vi tiene calde, in vita la paura. Quando non avete paura, siete presuntuose, sfacciate, pigre sentenzia Franz B.
Unico uomo apparentemente immune al terrore, tollerato dai concittadini perché almeno è infelice (esattamente come loro), il ricco ebreo è il solo ad ammettere che la città ha bisogno di un manager senza scrupoli che le dia la possibilità di trasformarsi. Questa metamorfosi, però, non può essere indolore, necessita di un degno compenso: un sacrificio.
E così la città salva sé stessa, nei suoi gesti conciliatori. Tutto si compensa e si appiana.

Serve qualcuno che si faccia carico delle colpe di tutti, qualcuno che sia sopravvissuto alla consapevolezza: ti tengono in vita finché non hai sofferto abbastanza. Qualcuno che sappia, per esperienza, che si può semplicemente scegliere se vivere un’esistenza infima, nella speranza di qualche attimo di splendore, o morire sommersi dalle sopraffazioni, espiando i peccati di tutti. L’unica creatura che corrisponde a questo identikit è Roma B., perché il ricco ebreo ha già superato il proprio calvario ed è esattamente questo che lo rende così detestabile: è la prova vivente di un qualcosa che non vogliamo prender in considerazione, di una colpa che nessuna Passione può cancellare.

La colpa è dell’ebreo perché lui ci rende colpevoli per il solo fatto di essere tra noi. Se fosse rimasto là da dov’è venuto, o se gli avessero dato il gas, io oggi dormirei meglio. Si sono dimenticati di dargli il gas. Non sto scherzando…sono le idee che mi passano per la testa. Fremo di gioia al solo pensiero che lui boccheggi in una camera a gas.
Fassbinder non risparmia nessuno in questo testo, non a caso il più colpito dalla censura, e Ortoleva decide di esaltare la tragicità dell’umanità raccontata in I rifiuti, la città e la morte con un dispositivo scenico che cattura e mostra con chiarezza inequivocabile come possano essere affascinanti e sgargianti i rifiuti umani, prima di decomporsi.

Lo splendore che sfila davanti ai nostri occhi, e che poi viene sacrificato senza indugi, è quello effimero e potentissimo di chi non ha nulla da perdere e sa che per restare in vita l’unica possibilità è muoversi a ritmo, senza esitazione, prima che possa esserci il tempo di fermarsi a riflettere.
Io so quel che mi spetta. Non ho il diritto di perdonare, né il diritto di pretendere alcunché. Non ho nessun diritto. È questo il mio vantaggio. L’impotenza è il mio vantaggio. Sentenzia Roma B. ed è difficile dissentire.

In un’esibizione danzante che è pura performance e che, in quanto tale, è effimera e potente insieme, i rifiuti umani che abitano la città sprigionano tutta la propria energia, quel poco che resta di vita senza riserve, ballando a perdifiato per continuare a brillare. Alle loro spalle la luce: che siano fuochi d’artificio, luci di una discoteca o le fiamme dell’inferno pronte a divorarli non importa. Sanno che il loro destino è quello della supernova: esplodere brillando in maniera distruttiva e spettacolare prima che cali di nuovo l’oscurità.
Leggi qui la nostra intervista a Giovanni Ortoleva
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