
Giovani teatranti (in)consapevoli – Intervista a Ortoleva, Bandini, Drago e Manella
La dodicesima notte (o quello che volete), rilettura della grande commedia giocosa di William Shakespeare, è l’ultima regia di Giovanni Ortoleva, menzione speciale nel concorso “Registi under 30” della Biennale di Venezia 2018. Prodotto dal LAC in coproduzione con il Teatro della Tosse, lo spettacolo ha debuttato proprio a Lugano, a fine febbraio, mentre la prime repliche italiane hanno avuto luogo a Genova, in primavera.
Tra le peculiarità del progetto vanno menzionate la scelta del testo, La dodicesima notte, forse la commedia del Bardo immortale più apprezzata dalla critica, ma anche una delle meno rappresentate, e l’età media dei componenti della squadra di lavoro, decisamente bassa. Il cast è composto, infatti, da ben otto attori (dei nove totali) under 35, senza contare il già citato regista fiorentino. I protagonisti di questa intervista sono proprio Ortoleva e tre giovani attori formati alla scuola del Piccolo Teatro di Milano che hanno preso parte allo spettacolo: Alessandro Bandini, Giovanni Drago e Anna Manella. A loro abbiamo posto alcune domande sui significati, le difficoltà e le ragioni di entusiasmo che si incontrano nel vivere il teatro oggi in giovane età.

Che cosa vi ha spinto a scegliere il teatro come vostra professione?
Ortoleva: Ho sempre vissuto il teatro come qualcosa di inevitabile per me, ma da cui era meglio scappare. Ricordo le parole di una mia professoressa universitaria che, quando le comunicai che volevo abbandonare il mio percorso di studi per dedicarmi completamente alla regia, mi rispose: «Resti, non faccia teatro. Non è fattibile. Col teatro non si mangia». Nonostante questa e altre sentenze ho voluto fortemente provare a trasformare la mia passione nel mio mestiere. In sintesi, forse, è stata la mia incoscienza il mio motore principale.
Bandini: Ricordo la fascinazione provata la prima volta che sono stato a teatro da bambino, al Teatro della Tosse. Sono stati i dettagli a rapirmi maggiormente: il velluto rosso delle poltrone, per esempio. Poco dopo ho iniziato a frequentare La Quinta Praticabile, una scuola di teatro per bambini e ragazzi a Genova, dove ho appreso il reale valore del gioco serio che è la recitazione. Era qualcosa di divertente e immaginativo, ma governato da regole ben precise come la dizione, che lo rendevano ancora più interessante.
Durante l’adolescenza, poi, mi sono progressivamente reso conto del fatto che perseguire questa strada comportava sacrifici. All’epoca si trattava di rinunciare a uscite con gli amici per ritagliarmi del tempo extra per studiare la parte o provare una volta in più una scena. Può sembrare una piccolezza, ma per un adolescente non lo è affatto, e io mi sono accorto che molto spesso quando ero messo di fronte a due alternative, la mia scelta ricadeva su quella che aveva a che fare con il teatro.
Infine, quando sono riuscito ad accedere alla scuola di recitazione del Piccolo ho percepito sia la responsabilità di poter studiare in un contesto tanto prestigioso, sia la possibilità concreta di realizzare questo sogno.

Drago: Io avevo 6 anni quando vidi in televisione Hook con Dustin Hoffman. Ho ancora chiaro in testa il mio pensiero di bambino: «Non sono cartoni animati. Perché esseri umani fanno questo? Voglio farlo anche io».
Se dovessi individuare il momento in cui ho avvertito che non potevo fare altro che l’attore, non avrei dubbi: è stato quello.
Manella: Io non ho un aneddoto tanto preciso, forse quando un giorno mia madre mi portò in teatro a vedere una mise en espace sono rimasta colpita dall’intorno, da particolari che oggi mi apparirebbero magari irrilevanti. Per esempio, c’era un’attrice che non parlava e io pensai: «Beata lei, che può stare lì senza dire niente.»
Poi, quando durante l’adolescenza ho iniziato a frequentare anch’io La Quinta Praticabile, circondata da tanti altri ragazzi appassionati e determinati come me, ho iniziato a percepire questa scelta di vita come ovvia. E anche qualche anno dopo, quando ho deciso di provare ad entrare in un’Accademia di recitazione, sapevo che anche se non fossi entrata, avrei comunque continuato a cercare modi per recitare a livello professionale.
In un periodo di presunta crisi del teatro, in una società in cui proliferano piattaforme sempre nuove che permettono ad attori, registi, performer e creatori di contenuti di raggiungere enormi bacini di spettatori con relativa facilità, qual è il significato che attribuite al vostro lavoro e, più in generale, all’attività teatrale?
Ortoleva: Innanzitutto va specificato che si tratta di una crisi che riguarda l’Italia. Nell’Est europeo, oppure in Germania, il teatro non sta vivendo affatto questa crisi. Inoltre, anche qua è in corso un grande processo di ritorno del pubblico in sala. Probabilmente questo fenomeno è da attribuire a due fattori: la fine del periodo della pandemia, e un grande cambiamento del linguaggio proposto negli spettacoli italiani, in atto negli ultimi anni.
Per quanto riguarda il significato, da quando il teatro ha superato la dimensione del rito, la ricerca dei perché è costante. Per questa ragione il regista vive un senso di responsabilità gravoso, ma estremamente stimolante. Personalmente non potrei mai scegliere un testo che non mi racconti qualcosa del mondo intorno, perché vorrei sempre proporre un teatro che in qualche modo parli a tutti.

Bandini: Non credo che il teatro sia davvero in crisi. Semplicemente è un mezzo che rimane in evoluzione da secoli, e penso che lo rimarrà a lungo, perché ha al suo centro un’indagine sul reale. E il reale muta in continuazione. Io sono contento del mio lavoro quando osservo che spinge chi lo guarda a interrogarsi in profondità sul mondo che lo circonda.
Drago: Concordo pienamente con Giovanni e Alessandro, il teatro racchiude in sé una dimensione di indagine che trascende i momenti specifici delle società e gli andamenti degli incassi ai botteghini. «Essere o non essere» è una domanda più grande di certe dinamiche, è una domanda che c’era prima di Amleto e che ci sarà finché esisteranno esseri umani pensanti. In un certo senso, si potrebbe addirittura dire che esistono due tempi separati: quello dell’arte e del teatro, da una parte, e il 2023 dall’altra.
Manella: Penso che la grande forza del teatro, che lo separa nettamente dalle altre piattaforme e dagli altri mezzi e che lo rende ancora, e forse più che mai, necessario sia la sua grande concretezza.
Intendo dire che non esiste un linguaggio più umano del teatro. Solo il teatro ti concede la possibilità di far nascere metafore e luoghi dell’immaginazione attraverso la concretezza dello spazio e dei corpi fisici. In questo modo gli spettatori, che sono anche loro fisicamente presenti, intravedono come delle fratture del reale, cioè avvenimenti e relazioni non reali che portano a vivere il reale molto più intensamente del social che, paradossalmente, ha la pretesa di bombardarti costantemente di spaccati di realtà selezionati e amplificati.

Com’è stato lavorare in una produzione tanto importante, con l’obiettivo di mettere in scena un grande classico come La dodicesima notte, all’interno di una compagnia così giovane?
Ortoleva: Per dirigere giovani attori è come se dovessi fare il percorso inverso rispetto a ciò che fai quando hai di fronte professionisti navigati. In questo secondo caso, infatti, hai il vantaggio di relazionarti a un artista strutturato che ha i suoi metodi e le sue tecniche collaudate, ma con cui è a volte molto difficile entrare in comunicazione profonda. Chi vive l’ambiente teatrale per molti anni spesso si costruisce una specie di corazza per proteggersi. Il famoso mestiere consiste anche in questo. Dunque il processo parte dai suoi punti di forza e dalle sue certezze per poi cercare di scavare ed entrare in connessione, rompendo determinate resistenze. Nel caso di attori più giovani, quest’armatura, questi schemi ancora non esistono, perciò si parte dalle fragilità, dalla carne viva, per arrivare alla forma.
Il fatto di aver già lavorato in passato con molti dei membri del cast ha molto aiutato a costruire un ambiente sereno, così come è stato fondamentale il fatto che il testo non abbia un vero protagonista.
Bandini: Io l’ho vissuta come un’esperienza meravigliosa. Il clima era di ascolto costante, mai di prestazione. Questo è stato possibile, come ha giustamente detto Giovanni, perché tanti di noi avevano già collaborato con lui, ma soprattutto perché noi attori proveniamo per la grande maggioranza dalla stessa Accademia, molti hanno addirittura studiato nella stessa classe, noi tre nello specifico ci conosciamo ancora da prima. Perciò siamo partiti da una conoscenza reciproca e da un linguaggio comune che hanno costruito un clima di ricerca veramente aperto.
Un altro aspetto che mi farà ricordare questo progetto a lungo in maniera positiva, è il fatto che per la prima volta non mi sentivo il giovane o l’inesperto all’interno della compagnia, al contrario avvertivo la responsabilità di mettere la mia esperienza al servizio di chi non aveva ancora vissuto certe difficoltà. Per me si è trattato di un vero e proprio ribaltamento di prospettiva: da apprendista a punto d’appoggio. Mi ha spinto a tirare fuori tantissima disponibilità e disciplina.
Drago: Oltre a sottoscrivere quanto detto da Giovanni e Alessandro sulla bontà del clima generale, io volevo solo aggiungere che la figura di Ale mi è stata profondamente d’aiuto nei momenti di crisi che sopraggiungono quasi sempre nei processi di ricerca artistica. Quindi, diciamo che non è stata solo una sua impressione, ha davvero svolto un ruolo di supporto importante per i più giovani.
Manella: È stata una bella officina di lavoro, in cui nessuno aveva risposte assolute o precotte, ma in cui ognuno ha cercato e provato insieme agli altri, riscoprendo elementi importanti della creazione di una rappresentazione che a volte, in altri contesti, si danno un po’ per scontati. Dal momento che nessuno sa precisamente come ci si fa portatori delle parole di Shakespeare, si prova a scoprirlo attraverso uno sforzo comune. Questo non significa andare a casaccio, ma piuttosto ascoltarsi e mettere a disposizione del gruppo ciascuno le proprie competenze specifiche e la regia di Giovanni Ortoleva ci ha aiutati e direzionati in questo, creando un ambiente di lavoro sempre fertile.

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