
«Se tenete a una foto, stampatela»: sui supporti delle immagini
Questo articolo fa parte della sezione Lessico della Cultura visuale, dedicata all’approfondimento di alcuni concetti chiave dei visual culture studies: in questo contributo si tenta di mettere in luce quanto una riflessione sui supporti e sul loro ruolo nel determinare le modalità di produzione, archiviazione e circolazione delle immagini sia oggi imprescindibile.
«Più di quarantamila anni fa, gli umani scoprirono come ingannare la morte. Hanno trasferito i loro pensieri, sentimenti, sogni, paure e speranze in materiali fisici che non morivano. Dipingevano sulle pareti delle caverne, intagliavano ossa di animali e scolpivano pietre che trasportavano le loro vite mentali e spirituali nel futuro. Nel corso delle generazioni abbiamo creato tecnologie sofisticate per esternalizzare i contenuti delle nostre menti in oggetti sempre più durevoli, compatti e portatili. Ogni svolta nella tecnologia di registrazione, dalla creazione di tavolette d’argilla seimila anni fa, fino all’invenzione dei rotoli di papiro, della stampa, della fotografia, della registrazione audio e ora dei supporti digitali ultracompatti, portatili ed estremamente fragili, ha aggiunto qualcosa alle vaste riserve di conoscenza che custodiscono la chiave del nostro successo come specie» (Rumsey, 2016)

Lo scopo principale degli studi di cultura visuale – la cui nascita abbiamo ripercorso nel precedente articolo di questa sezione – è indagare la natura storicamente e tecnicamente determinata delle immagini oltre il piano della rappresentazione, il più evidente. Considerare allora anche tutti quei fattori materiali che contribuiscono a situare un’immagine all’interno di uno specifico contesto storico e culturale, che ne permettono concretamente la visualizzazione. Fattori che in sostanza fanno sì che una image, un’immagine mentale, si configuri come una picture, un’immagine incarnata, tangibile, oggettificata (assumendo la fondamentale distinzione di W. J. Thomas Mitchell, impercettibile nella lingua italiana: «you can hang a picture, but you can’t hang an image»).
Alla base della possibilità di visualizzare una picture deve esserci pertanto un supporto materiale, che si tratti della parete di una roccia, di un muro, della tela o di un blocco di marmo: un supporto la cui natura e fisionomia saranno determinanti per le modalità di produzione, archiviazione e circolazione dell’immagine. Pensiamo alla pittura: se per secoli – a partire dall’antichità – il principale supporto delle opere pittoriche è stata la tavola, sul finire del XV secolo si assiste alla rapida diffusione della tela, il cui successo è determinato sia dal minor costo del materiale sia dalla maggiore facilità di preparazione e trasporto, qualità compatibili con il nascente mercato artistico rivolto alle classi emergenti. Nel suo recente Figure, Falcinelli evidenzia anche come, se per millenni le rappresentazioni artistiche hanno assunto le forme più varie (rettangoli, cerchi, ovali, trittici e polittici), a questo punto della storia dell’arte si assiste a una «progressiva convergenza delle pitture verso superfici rettangolari». La tela infatti – a differenza della tavola, ritagliabile in qualsiasi forma – va tenuta tesa, inchiodata a una cornice preferibilmente squadrata. A ciò si aggiungano poi anche le parallele implicazioni pittoriche: la composizione di un quadro che impiega la nuova tecnica della prospettiva, che meglio si adatta a una superficie rettangolare, è molto distante da quella, ad esempio, dei tondi rinascimentali, in cui le figure venivano disposte secondo un andamento circolare.

Sul legame di reciproca dipendenza tra rappresentazione e supporto, troviamo ancora in Falcinelli:
«All’alba della pittura, gli artisti che hanno realizzato le antiche figure rupestri lavoravano su un soffitto scabroso e irregolare: non c’erano confini, non c’era piattezza. Anzi, se la grotta presentava protuberanze e avvallamenti questi potevano pure fornire l’ispirazione: per esempio una bugna nella roccia diventava il muso di un animale. Si disegnava insieme al supporto, non sopra di esso. Non c’era idea di inquadramenti, di rettangoli o di un unico livello su cui dipingere»
Ma la questione del supporto, come accennato, si lega anche alla stessa possibilità di circolazione e commercializzazione delle immagini. Pensiamo a come, nella storia della fotografia, il passaggio dal dagherrotipo, quindi da un’immagine che esisteva come esemplare unico, alla pellicola in celluloide, dalla quale era possibile produrre molteplici copie della stessa immagine, abbia avuto come effetto la rapida diffusione di immagini fotografiche; oppure, più avanti, a come il passaggio dal supporto fisso incarnato dal grande schermo cinematografico alla circolazione di numerosi schermi mobili di varie dimensioni abbia trasformato in profondità la nostra modalità di visione delle immagini. Già nell’introduzione a Mnemosyne (1929) Aby Warburg sottolineava la necessità di indagare il funzionamento dei supporti che veicolano la diffusione delle immagini, facendo riferimento in particolare al ruolo svolto dall’arazzo – «mezzo semovente di trasporto» – nella formazione di uno stile europeo nel corso del Rinascimento:
«L’arazzo fiammingo è il primo tipo, ancora colossale, di trasporto di immagini che, una volta tolto dalla parete, non solo per la sua mobilità, ma anche per la sua tecnica che rende possibile riprodurre lo stesso contenuto iconografico in esemplari tra loro uguali, rappresenta un predecessore del foglio di carta con immagini stampate, cioè l’incisione su rame e la xilografia. Esse permisero lo scambio di valori espressivi tra Nord e Sud come un evento vitale nel processo ciclico di formazione dello stile europeo»
Oggi i meccanismi dei nuovi media rendono urgente più che mai una rinnovata indagine sulla produzione e circolazione delle immagini: la diffusa necessità di creare ed esporre contenuti visivi e la possibilità effettiva di renderli accessibili a un vasto pubblico (che è anche produttore) influiscono sulle dinamiche di ricezione, riportando l’attenzione sull’immagine «in quanto prodotto culturale reale che ha una vita, una consistenza mediale e una circolazione», con Michele Cometa.

Diventa insomma sempre più evidente che mentre si digitalizzano le immagini pensando di preservarle così in eterno, esse restano legate – come ogni picture – a precisi supporti materiali, la cui natura è precaria e deteriorabile, sensibile agli stessi rischi cui sono sensibili le immagini stampate: risale a marzo di quest’anno l’incendio che ha colpito il datacenter OVH di Strasburgo, tra i maggiori fornitori europei di infrastrutture cloud, a causa del quale numerosi servizi e database sono diventati inaccessibili, come il sito del Pompidou, che – con la sua collezione di circa 70 mila opere – si attesta tra i musei più visitati al mondo.
Il vertiginoso aumento del numero delle immagini in circolazione derivato dalla nascita del Web e dalla diffusione delle nuove tecnologie digitali ha condotto poi a una situazione in cui la nostra capacità di generare immagini sta drammaticamente superando la capacità dei nostri sistemi di immagazzinamento della memoria. In passato, i ritmi di generazione e diffusione delle immagini erano frenati dagli elevati tempi e costi di produzione. Oggi quei freni sono venuti meno e le immagini «viaggiano alla velocità degli elettroni, praticamente prive di attrito» (Rumsey, 2016): ogni giorno solo sui social network vengono caricate più di tre miliardi di immagini.[1]

È Abby Smith Rumsey in When We Are No More. How Digital Memory Is Shaping Our Future (2016) a sottolineare l’estrema fragilità della memoria digitale a cui ci stiamo affidando: i codici dai quali dipendono i file vengono rapidamente riscritti e resi obsoleti, i dati digitali sono totalmente dipendenti da macchine per essere resi accessibili, macchine che a loro volta sono totalmente dipendenti da un ininterrotto flusso di energia che le alimenti.
«Se tenete a una foto, stampatela»: il paradossale avvertimento di Vinton Cerf, creatore a fine anni ’60 dei primi protocolli Internet, durante il meeting della American Association for the Advancement of Science del 2015. Cerf si è detto preoccupato per il futuro dei documenti digitali, i cui formati diventeranno presto obsoleti e illeggibili a causa del continuo processo di ridefinizione che subisce il sistema di tecnologie a cui consegniamo le nostre immagini (basti pensare alla rapidità con la quale i floppy disk dei ’90 sono diventati oggetto da museo). Una riflessione sui supporti delle immagini digitali diventa così imprescindibile e non rinviabile di fronte al possibile scenario futuro delineato dal vicepresidente di Google:
«Il nostro secolo rischia di trasformarsi, a causa della non corretta gestione dei dati digitali, in un buco nero della storia. La prima era digitale potrebbe rivelarsi senza testimonianza storica. Senza rendercene conto, stiamo gettando tutti i nostri dati in quello che rischia di diventare una sorta di deserto digitale dell’informazione».[2]
Bibliografia essenziale:
A. Pinotti e A. Somaini, Cultura visuale: immagini, sguardi, media, dispositivi, Torino, Einaudi, 2016
R. Falcinelli, Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram, Torino, Einaudi, 2020
A. S. Rumsey, When We Are No More. How Digital Memory Is Shaping Our Future, New York, Bloomsbury Press, 2016
V. Tanni, Memestetica – Il settembre eterno dell’arte, Roma, Nero, 2020
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Ottima serie !