
La stanza del figlio – Vent’anni di onesto realismo
Il 9 marzo 2001 usciva nelle sale italiane La stanza del figlio di Nanni Moretti. La splendida sceneggiatura del film, il cui soggetto risale già al 1996, è stata scritta da Moretti in collaborazione con la sceneggiatrice Heidrun Schleef e la scrittrice Linda Ferri. E oggi, per celebrare i suoi primi vent’anni, proponiamo qualche riflessione su questa tappa imperdibile del cinema morettiano.

Per un onesto realismo
Nel cinema di Nanni Moretti, La stanza del figlio rappresenta infatti uno snodo centrale, una sorta di “risultante di quel momento di rifondazione costituito da Caro diario e dal suo pendant Aprile“1.
È il film con cui Moretti si fa padre – in tutti i sensi – dismettendo la prospettiva angosciante e irrisolvibile dell’eterno ragazzo che non trova la quadra tra il suo posizionamento nel mondo, il mondo stesso e la critica di esso alla quale non può e non deve rinunciare. Il film con cui Moretti, in un certo senso, approda alla serietà dell’età adulta. La maturità che si può raggiungere solo attraversando il dolore, purché esso sia reale e non più celato, simulato o raccontato ricorrendo ora al dramma comico (e tragicomico), ora al racconto diaristico, ma a una narrazione cinematografica che è prima di tutto scrittura.
Ma La stanza del figlio è anche il film con cui Moretti vince la Palma d’Oro al Festival di Cannes e che sancisce così la sua definitiva affermazione a livello internazionale. Vale la pena rivedere il momento della premiazione, in cui un Nanni Moretti sinceramente emozionato esulta, saluta il pubblico e ringrazia senza fiato le sue collaboratrici e i suoi collaboratori. Traspare una sensazione di onesta e comprensibile commozione. Basterebbero forse questi due minuti per descrivere l’intenzione comunicativa principale de La stanza del figlio, in cui, attraverso una narrazione delicata e dettagliata, si ricerca un realismo sincero, o, com’è stato più volte dichiarato dal regista e dai membri del cast, onesto.
L’autenticità del dolore
Rispetto ai precedenti film, Moretti approda a una narrazione puramente finzionale, che nulla ha più a che fare con l’autobiografismo esposto o simulato dell’autore (sebbene il suo vero nome, e non è poco, rimanga). Così, accantonate maschere, idiosincrasie, situazioni frammentarie ed episodiche, la centralità della storia, salda e fortemente strutturata, giunge a piena maturazione.
Abbandonata anche Roma, per il momento, siamo nella più percorribile Ancona, già scenario del primo Luchino Visconti di Ossessione. Giovanni (Nanni Moretti) e Paola (Laura Morante), uno psicoanalista e un’editrice di cataloghi d’arte, sono i genitori di Irene (Jasmine Trinca) e Andrea (Giuseppe Sanfelice), adolescenti in età liceale. La vita famigliare scorre serena, senza le divertenti tensioni e gli isterismi parentali del precedente cinema morettiano. L’armonia della famiglia riunita, tra sport, complicità e vicende di vita quotidiana in cui non manca anche qualche incomprensione, viene tutt’a un tratto spezzata dalla morte di Andrea in un incidente.

Come ha ben osservato De Roberto, “l’irruzione drammatica della morte è un grumo d’intensità senza articolazione; dolore allo stato puro, senza complessità, senza sviluppo. […] All’improvviso, la vita sembra perdere di senso, e la morte diviene scioccante perché non ammaestrabile, insensata. È questo non poter dar senso alcuno alla morte – che arriva così nella sua estemporaneità – e quindi alla vita, presente e anche futura, lo scandalo inaccettabile e intollerabile: il dolore che non può essere lenito, in primo luogo quando concerne il nostro futuro e il nostro passato, e quindi la nostra identità: la parte di noi stessi che muore insieme alla scomparsa di un figlio, e quella che è morta con la sua crescita.”2
Nel film, l’irrazionalità di una ferita insuturabile diventa ancora più ingiustificabile poiché non sussiste l’affidarsi a una prospettiva consolatoria di una vita oltre la morte. Quale via per affrontare il dolore, quale calmante possibile? Distrarsi fino a stordirsi, come cerca di fare Giovanni al luna park in una delle scene più intense del film, o provare ossessivamente a tornare indietro. Queste sembrano inizialmente le uniche soluzioni per chi non può accettare l’esistenza di un destino, l’idea che “non tutto nella vita può essere determinato da noi“. Parole che lo stesso Giovanni prima dell’incidente rivolge a un suo paziente, ma che nella sua vita si risolvono in niente. Neanche il lavoro infatti, di per sé già difficile, può essere svolto come prima, e forse in nessun’altra forma.
Il mondo esterno nella sua complessità e polifonia si presenta nel film con le psicosi e le nevrosi dei pazienti di Giovanni, tra cui compaiono il fedele Silvio Orlando, un giovane Stefano Accorsi e un commovente Dario Cantarelli. Nanni Moretti ha dichiarato che “dopo la morte di un figlio tutte le teorie diventano opache”. E ciò vale anche per la teoria psicoanalitica: il dolore è tale che interdice la parola, non solo quella intima, ma anche quella che cura. Ciò che resta è il silenzio di una sofferenza senza parole.

Rappresentare l’incomunicabile
Il film rappresenta il complesso rapporto tra il dolore, la morte e la famiglia. Cosa accade quando la morte incombe e un anello viene a mancare spezzando un equilibrio? Si fa esperienza dell’unicità del dolore, esperienza della solitudine, dell’io che, di fronte a se stesso e alla sostanziale impossibilità di entrare davvero in rapporto con gli altri, riscopre la propria individualità.
Dunque, se la parola difetta, se la comunicazione non è più possibile e se ogni forma di solidarietà viene a mancare, attraverso le immagini e il linguaggio del cinema quello che si può raccontare è un sentimento, o meglio un’atmosfera. Nanni Moretti ricrea una sospesa malinconia che non suscita forse il pianto, che non esplode mai, ma che, come un filo rosso o una tensione latente e pervasiva al tempo stesso, marchia le nostre vite, e per sempre le accompagna.
Di questo film si è già scritto molto in precedenza, ma una cosa sola preme sottolineare ancora. Rivedendo oggi La stanza del figlio si rimane colpiti soprattutto dalla magistrale rappresentazione dell’impossibilità, della difficoltà di dire e verbalizzare il dolore che domina tutto il film. L’incomunicabilità – parola che subito rievoca Michelangelo Antonioni – è la lente con cui vorremmo proporre e riproporre al lettore la visione di un film che si può ritenere ormai un classico del cinema italiano degli ultimi vent’anni.

Così Giovanni, ma anche Paola e Irene, non riescono a verbalizzare tanto l’accaduto quanto il dolore che provano. In tutto il film non si riesce a dire, e a scrivere, ciò che è avvenuto. Giovanni, subito dopo l’incidente, prova a fare alcune telefonate per avvisare amici e parenti, ma non riesce, gli è impossibile. Sarà soltanto Paola, costretta, a dire una sola volta le parole “Andrea è morto”. E lo farà nel momento in cui Arianna, personaggio secondario eppure centrale, comparirà nelle loro vite, offrendogli inconsciamente il filo con cui uscire dal labirinto di dolore e solitudine in cui ognuno brancola.
Ecco che allora, in questa tappa del suo cinema, Nanni Moretti ci mostra la vera natura del dolore: divisiva. E così è per il semplice fatto che l’esperienza della morte, della morte dell’altro, è talmente unica da non essere raccontabile, e dunque dialogabile, tanto meno in una sola versione corale.
Così la stanza del figlio è e rimane sempre vuota. Si fa simbolo, immagine e scenario di una vita che perde i punti di riferimento: una vita che perde, si perde e si disperde, lasciando un vuoto, appunto, incomunicabile. Vent’anni fa, come oggi.

Note e bibliografia
1. F. Villa, Nanni Moretti. Caro diario, Lindau, Torino, 2007, pp. 85-87.
2. R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente, Luigi Pellegrini Editore, nuova edizione aggiornata, Cosenza, 2015, pp. 172-174.
J.A. Gili, Nanni Moretti, Gremese, Roma, 2001.
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