
Aprile di Nanni Moretti – Un tutt’uno tra cinema e autore
In Aprile di Nanni Moretti, la riflessione dell’autore su sé stesso intercetta quella collettiva e mediatica di un paese intero. Procede alternando prossimità e distanza, sguardo all’interno e sguardo all’esterno di sé stessi e diviene, come spesso accade con registi come Moretti, tutt’uno col suo autore, incorporandolo, lasciandosi da lui popolare in ogni anfratto della fase creativa, divenendo un punto di non ritorno e quindi un nuovo inizio, espressivo ed esistenziale. Anche per questo, Aprile è il più generoso e intimo dei film di Moretti. Non c’è più l’autarchia come scusa per non crescere, non c’è più la politica nelle piazze, non c’è la sceneggiatura perché basta la vita stessa e non c’è neanche una conferenza stampa perché le intenzioni e la poetica sono tutte contenute nello scorrere della pellicola, come in un film di Jafar Panahi.
Però, c’è ancora un’ironia arrabbiata e dolente: ad inaugurarlo vediamo un commosso Emilio Fede che racconta della prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, datata 28 Marzo 1994, dagli studi del Tg4: un documento, uno dei tanti reperti che Moretti assembla in questa ironica e addolorata cronistoria. Si parte con una figura ricorrente del racconto Morettiano: la sconfitta, la dichiarata appartenenza a una minoranza disillusa e fiera, addirittura l’estraneità dichiarata dallo stesso partito di centro-sinistra di cui si sperava la vittoria, desertificato e ammutolito nel volto catodico di Massimo D’Alema, a Porta a Porta.

Pensando all’analogo Caro Diario (1993), Aprile, successivo di ben cinque anni, sembra concluderne la convalescenza, il percorso intimistico e tassonomico dentro sé stesso e determinare l’uscita da sé di un regista che, pur con le stesse ossessioni e manie, abbandona però i suoi toni più narcisistici. Nel film presentato in concorso al 51º Festival di Cannes, Nanni Moretti sancisce la morte definitiva di Michele Apicella, suo alter-ego d’infanzia, annegato per sempre nella piscina di Palombella Rossa (1989). Così facendo, fonde quasi irrisolvibilmente uomo e personaggio, e al contempo documentario storico e home movie. Vincenzo Cerami scriveva su Il Messaggero che “Il cinema di Nanni Moretti non può prescindere dall’attore Nanni Moretti” e dopo Aprile, è doveroso aggiungere dal cittadino Nanni Moretti, sia pubblico che privato, tra accettazione e rifiuto, stasi e cambiamento.

Come in un continuo presente, cronaca e diario, storia e vissuto, sogno e abitudine si alternano con un ritmo delicato, ora euforico, ora malinconico. Autore, narratore e insieme personaggio, Moretti narra di sé stesso mentre compie e vive ciò che racconta, dissolve il personaggio come costruzione e finzione, trasformando la vita stessa in tragicommedia. La sua voce iper-soggettivizzata, è sia off che in, contemporaneamente dentro e fuori la narrazione, e crea così una sorta di cortocircuito tra reale e rappresentato, campo e fuoricampo.
In questo auto-pedinamento, la politica e la storia sono per buona parte compresse sui giornali e negli schermi televisivi e la vita si dipana col ritmo dell’abitudine. In sottofondo c’è una parabola di arditi e fugaci sogni cinematografici, ma come al solito, cinema e politica, in Moretti, arrivano a combaciare quasi perfettamente e qui, i confini tra i due si sfarinano definitivamente: l’impegno del Moretti personaggio-autore verso l’istanza politica e quella artistica è ugualmente discontinuo, distratto, amaro, tra ossessività e rimozione.

Gli impulsi creativi vagano tra due generi antipodici e antichi: il documentario e il musical, la realtà colta nel modo più prossimo e trasparente, reportagistico e catalogatorio e poi la sua edulcorazione spettacolare, la sua resa finzionale più marcata, stando ai generi. Tra la storia messa in musical di un pasticciere trozkista degli anni cinquanta e un attento documentario sulla campagna elettorale, c’è il Moretti uomo, spettatore, critico e intollerante verso il mondo, la politica, il cinema e verso sé stesso, in perenne fase di crescita, nel limbo che sosta tra adolescenza ed età adulta.
Agli strappi sarcastici e impertinenti rispondono i composti momenti di vita collettiva, la normalità delle cose private. Ed è proprio quando il racconto sosta su questi momenti che la poetica di Moretti assume uno sguardo serio, delicato ed umanista sulla realtà. Perché se Aprile è il film della responsabilità e della maturità di Nanni Moretti, lo è perché, la diversità con cui il regista romano è costretto a fare i conti non è soltanto quella “raccontata”, che sia berlusconiana, di costume, oppure cinematografica, di stile e sensazione, ma è soprattutto la voce di Moretti a cambiare e la generosità con cui offre sé stesso al racconto.

Con Aprile, Moretti fa i conti con ciò che altro da sé, in politica, nel lavoro e nella vita, espressivamente ed esistenzialmente, con la svolta radicale e assoluta che è la paternità. Una svolta che contagia anche il rapporto tra il regista e il cinema, lasciando che l’approccio al mezzo muti e maturi con la persona e conseguentemente, anche con la sua poetica. È in Caro Diario e più definitivamente in Aprile – non a caso, due film ad andamento diaristico, senza Michele Apicella – che Nanni Moretti innesta, seppur con toni ancora ironici, le riflessioni su paternità e perdita che caratterizzeranno una nuova fase della filmografia del regista. Partendo da La Stanza del Figlio e arrivando a Tre Piani (2021), la genitorialità, e i sentimenti di responsabilità e di inadeguatezza che ne conseguono, in Moretti saranno temi sempre più presenti e spesso irradiati di un’inquietudine crescente.
Ma all’inizio di Aprile, a guardare Emilio Fede accanto a lui c’è sua madre, Agata Apicella Moretti, che commenta arresa i risultati. La sua presenza nella scena rende Moretti ancora un figlio, anche se più composto e meno recalcitrante degli albori, a confermare che Aprile è un film cruciale per cogliere l’evoluzione espressiva e tematica del regista, l’adolescenza della filmografia Morettiana, che sembra rinnovarsi e trascriversi man mano che si compie. In Aprile, gli eccessi e le iperboli critiche convivono con il sentimento stesso della vita, il fluire delle cose, lo sguardo lucido e trasparente verso il tempo rimasto. La fiduciosa simbiosi che vita e cinema raggiungono in questo piccolo saggio sul proprio essere nel mondo, saranno un unicum, un punto di partenza e insieme d’addio. Un po’ come il primo governo di centro-centrosinistra, o come la prima e ultima canna della nostra vita.
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