
La ricerca del sorriso – Intervista a Renzo Arbore
Renzo Arbore è uno di quei personaggi che non necessitano di presentazioni: disc-jockey (uno dei primi in Italia), musicista, ideatore e presentatore di programmi storici della Rai, negli anni ha saputo fare della curiosità, del gusto per l’improvvisazione e del sorriso i motori principali della sua carriera e del suo grande successo. Con tanti progetti alle spalle di cui si ricorda spesso (Alto Gradimento, Quelli della Notte, Indietro Tutta…), oggi Arbore porta avanti un progetto sul web, il Renzo Arbore Channel, che ha visto la luce nel marzo 2013 dopo una lunga gestazione (il primo esperimento a riguardo risale al 2007), e che raccoglie musica e video selezionati da lui stesso, a costruire una sorta di archivio personale di contenuti divertenti e curiosi messi a disposizione di chiunque voglia farvi un giro.
In questa intervista a Renzo Arbore siamo partiti proprio dal Channel e dai sui contenuti, finendo poi per parlare del panorama televisivo contemporaneo, delle potenzialità della rete e dell’importanza di tenere sempre in mente il passato, il tutto con la naturalezza di un personaggio che ha ancora voglia di usare la propria passione per rallegrare e arricchire il prossimo. Alla fine, a emergere è un invito che in fin dei conti anima un po’ tutta l’attività del nostro intervistato: non bisogna smettere di essere curiosi, di aver voglia di imparare, poiché è in fin dei conti questo che ci permette di andare avanti. Per usare le parole di Arbore: «frugate incessantemente».
Partiamo dalle basi: cos’è il Renzo Arbore Channel, e da dove nasce l’idea?
L’idea del Channel è nata molto tempo fa, con Dennis Gianniberti, che a Orvieto mi si presentò come un mio grande ammiratore, dicendo di voler trovare un modo per lavorare insieme; è stato un altro di quelli che ho incontrato un po’ per caso e in cui ho visto il “sacro fuoco dell’improvvisazione”, e dato che era un appassionato di elettronica mi sono detto che poteva essere una buona occasione per inventarmi uno spazio in cui fare il comodo mio, mettendo le cose che piacciono a me, facendo una selezione, una scelta. Riguardo a questo aspetto, voglio ricordare che quando ho cominciato a lavorare in radio io e Boncompagni [Gianni, n.d.r.] ci siamo inventati il mestiere del disc-jockey, che allora consisteva nel fare una scelta musicale fra i dischi che ci arrivavano o che compravamo autonomamente in Inghilterra e in America: fra questi sceglievamo il meglio da lanciare attraverso la radio. Adesso non si fa più in questo modo, perché ci
si basa sulle playlist e si è abbandonata la volontà di educare il pubblico, di spiegargli la musica. Quando sono partito con il Channel volevo seguire gli stessi criteri con i video, con il materiale televisivo, cinematografico, musicale: fare una specie di video-jockey. Questo è ancora il mio sogno alla mia età: “spiegare” alla gente questa o quella chicca televisiva, o cinematografica, o di spettacolo, o musicale, che adesso si trovano abbondantemente su internet. Quindi questo è il mio scopo, la missione del mio Channel: fare con la mia esperienza, con la mia passione, il video-jockey, il veejay, che non fa quasi nessuno. Naturalmente ho dovuto sperimentare a mie spese tutti gli inconvenienti che ci sono, perché farsi largo nella foresta di internet, di YouTube, è veramente complicato e difficile. Ci sono dei metodi per avere più successo, come fare prodotti brevissimi, usare ripetizioni, comprare del pubblico “finto”, però sono strade che non voglio seguire. Sono abituato a conquistare il pubblico piano piano, attraverso il passaparola, con la scoperta da parte della gente e con la qualità.

In pratica come viene costruito questo tuo spazio virtuale, e come si articolano i suoi contenuti?
Nel Channel ho un abbondante palinsesto diviso in due grandi categorie: una riguarda le mie “malefatte” (non ho il coraggio di chiamarle in altro modo), ovvero contenuti tratti dal mio repertorio televisivo, cinematografico, ma anche radiofonico, per quello che posso; l’altra comprende invece materiale altrui, “cose curiose fatte da altri”, e lì vado esplorando cantanti meno popolari, qualche nuovo talento o grandi classici, che chiamo Foundamentals perché bisogna assolutamente conoscerli. Io penso che non si possa fare comicità senza conoscere le basi, i fondamentali: certe invenzioni di Walter Chiari (penso al Sarchiapone), di Alberto Sordi, degli altri grandi umoristi, o i meccanismi basilari, come ad esempio l’equivoco… Si tratta di elementi fondamentali per inventare poi l’umorismo moderno, da cui non può prescindere nemmeno chi oggi fa stand-up. Insomma, è un po’ questo il criterio dietro alle mie scelte.
Naturalmente (e questo è qualcosa che ho scoperto di recente) se ci si inventano degli slogan, dei programmini, è più facile avere seguito: questo è qualcosa che ho cominciato a fare durante la quarantena, prima di Striminzitic Show (un programma un po’ strano, adatto al Channel ma che ho invece fatto per Rai 2), con Cinquanta Sorrisi da Napoli. Qui ho approfittato del fatto che c’è una gran quantità di materiale che riguarda comici napoletani: da Totò a Eduardo de Filippo, da Vincenzo Salemme a Massimo Troisi, ma anche Maurisa Laurito, Luciano De Crescenzo. Un’abbondanza di sorrisi, insomma, e da qui ho costruito questo primo programma del Channel. Si è trattato di un successo, perché grazie a questa operazione il Channel ha incrementato moltissimo le visite: fino a 700.000 persone hanno sentito Carosone, oppure Pazzaglia. Insomma, cose molto fortunate. Adesso sto facendo un programma che si chiama Aspettando il Vaccino: chicche televisive o cinematografiche rubacchiate, “ravanate” qua e là. Questa è la missione su cui mi diverto a lavorare in questo momento.
D’altronde io dico sempre che, per conquistare il pubblico, il sorriso è il platino: dopo viene tutto il resto, anche l’oro, ma il platino è il sorriso. Oggi credo si cerchi soprattutto di sorridere un po’, e in generale al sorriso è associato anche il mio modo di fare televisione; è lo stesso criterio con cui vado esplorando internet. Naturalmente, quando lo faccio mi interesso anche dell’aspetto musicale. Internet mi ha aperto la possibilità di vedere molte cose di cui tempo fa conoscevo solo l’esistenza: vecchi cantanti, esecuzioni… Quindi mi diverto su YouTube, ho una passione per la rete, passione che alla mia età di solito manca. Vorrei molto che la mia generazione imparasse a frequentare la rete, perché in fondo è molto facile e si possono fare scoperte molto interessanti, c’è un’abbondante messe di cose di tutti i tipi.
Certo, un altro mio desiderio sarebbe anche quello di ripetere ciò che ho fatto in televisione, nella mia carriera, ossia scoprire nuovi talenti, soprattutto nuovi talenti del sorriso. Come dimostra la televisione di oggi, con X-Factor o con Tu Si Que Vales, ci sono tanti talenti nel campo della musica, ma pochissimi, quasi niente, quando si parla di comicità, di persone che sappiano far sorridere: sembrano veramente rari.

Restiamo un attimo su questa idea di selezionare contenuti validi e curiosi da offrire al pubblico. Si tratta in fin dei conti di una costante, nel tuo lavoro: penso a L’Altra Domenica, con la selezione musicale, ma anche a programmi come Tagli, Ritagli e Frattaglie, o Marisa La Nuit…
O anche D.O.C., di cui per caso mi è capitato di parlare proprio oggi. A mio parere è stato il più bel programma musicale fatto in televisione: presentato da Gegè Telesforo e Monica Nannini, si tratta di 400 puntate in cui veniva offerto il meglio della musica nazionale e internazionale. Si fa prima a elencare chi non è venuto, perché gli altri sono stati ospitati tutti, da De Gregori a James Brown, da Dizzy Gillespie a Enzo Jannacci, o Dario Fo. Tutti quanti a D.O.C. Ma insomma, questo fa più parte della mia vita da disc-jockey, talent scout.
Certo, però appunto si tratta di un aspetto fondamentale perché, come dicevi anche tu stesso, si collega all’idea del video-jockey. Rispetto al periodo dei programmi televisivi cui abbiamo accennato, secondo te adesso cosa cambia con la rete?
Se vogliamo pensare al rapporto fra televisione e rete, direi che la televisione generalista ignora la rete. Serve soltanto per vedere i risultati immediati di qualche intervista, di qualche evento; oppure la usa come mezzo, in questi tempi di pandemia, per intervistare qualcuno direttamente a casa. Però si tratta di una televisione che dal punto di vista dell’intrattenimento lascia molto a desiderare, rispetto alla televisione straordinaria che è stata fatta in Italia. Non voglio sembrare un laudator temporis actis – un “lodatore del tempo passato” – però noi abbiamo fatto quella che è stata ritenuta da alcuni la televisione più vivace, più bella del mondo; non parlo della mia, parlo del lavoro di Falqui, di Enzo Trapani, di Corrado, Raffaella Carrà, Mina. Dei grandi, insomma, della grande televisione. Adesso si fanno trasmissioni “di pronto intervento”: interviste sull’attualità e una televisione di chiacchiera, di gossip, di “fatti vostri”. Si tratta del titolo della rubrica di Guardì, però possiamo dire che “i fatti vostri” è un po’ il leitmotiv di tutto questo tipo di televisione: lo vediamo nelle interviste che fanno a Domenica In, o che sono presenti in programmi che possiamo definire gossippari. Alcuni sono di pessimo gusto, e secondo me esiste una distinzione fra programmi trash e programmi cheap. I primi sono quelli di cattivo gusto, che in realtà in Rai sono poco presenti, mentre i secondi costituiscono una televisione meschina, che non arricchisce il telespettatore ma piuttosto lo impoverisce, facendogli credere di proporre comunque qualcosa di interessante; si tratta di una televisione che segue i gusti del pubblico diciamo “meno colto”. Ahimè, non voglio fare lo snob, ma esiste un pubblico “di bocca buona” e uno più esigente, e la televisione segue più i gusti del primo. Questo soprattutto per quanto riguarda l’intrattenimento. C’è quindi un po’ d’allegria, ma fittizia: giochi, o cose del genere, come a gridare “stiamo allegri!”, però per ridere davvero devi sempre rivolgerti a Frassica o altri pochi comici, umoristi di spessore. La perdita di Gigi Proietti è stata determinante per farci fare un esame rispetto a quanta poca gente oggi ancora faccia ridere sinceramente. Ci sono molti che fanno stand-up, alcuni anche molto bravi: vengono dal serbatoio di Zelig, che ha partorito anche qualche talento. Poi, certo, i migliori sono Aldo, Giovanni e Giacomo, grandissimi, ma ce ne sono anche altri – come Giuseppe Giacobazzi, romagnolo, che a me piace molto – che rientrano nel gruppo di quelli che potremmo definire “comici locali”, come anche Andrea Pucci a Milano, ma si tratta comunque di merce rara; rimane il fatto che non si riescono a trovare talenti nuovi, e torniamo al discorso dei talent: tanti bravi cantanti, bravi musicisti, ma mancano i talenti comici. Questo in realtà riguarda anche il cinema: dopo Benigni, Renato Pozzetto, Manfredi, Sordi, c’è sì una nuova generazione, rappresentata da Checco Zalone, ma i nomi non abbondano. Anche Villaggio, che è stato un caposcuola straordinario, non c’è più; insomma, ci troviamo in una carenza di sorrisi e risate.
Tornando alla televisione, direi che appunto si procede con una logica usa e getta, con programmi che durano il tempo dell’attualità e poi scompaiono.
In questo scenario esiste anche RaiPlay, che rappresenta un tentativo di sfruttamento delle potenzialità della rete. Cosa pensi di questa piattaforma?
Secondo me la Rai ha un enorme serbatoio, un repertorio straordinario, perché prima la televisione si faceva come prodotto artistico, perché si conservasse nel tempo. Quando Falqui faceva uno spettacolo con Patty Pravo, o con Mina, Raffaella Carrà, oppure Studio Uno, si faceva perché poi questo venisse conservato; già anni fa esisteva un programma chiamato Ieri e Oggi in cui Lelio Luttazzi presentava i lavori vecchi e nuovi di vari artisti. Adesso invece, come ho detto, si fa una televisione che parla di attualità o che fa le imitazioni dei personaggi di attualità, che dopo un po’ non funzionano più. Pensa a tutti quelli che imitavano Bossi: adesso i ragazzi non sanno più di cosa si tratta, perché Bossi non c’è più.
Anch’io ho sempre cercato di fare una televisione che si potesse conservare, e per fare questo bisogna avere in mente una piccola cosa: cercare di fare un prodotto vagamente artistico. Non dico di fare l’arte con la televisione (certo, si può fare anche quello), però almeno una velleità artistica bisogna averla, bisogna curarla; lo spirito è questo, fare una cosa bella, che si abbia voglia di conservare. Adesso non mi sembra più che il criterio sia questo, non ne sento più parlare. Gli addetti ai lavori sembrano parlare solo dell’ascolto. Qui sta uno dei grandi responsabili della cattiva qualità dell’intrattenimento (e continuo a specificare perché i programmi di informazione, per esempio, sono una cosa diversa e bisogna fare una distinzione): seguire pedissequamente gli ascolti anche se l’ascolto premia la cattiva qualità, il cattivo gusto, una rissa verbale, la volgarità. Questo è tutto. Prima esisteva anche un altro criterio, quello di seguire la critica: si faceva per il pubblico e per la critica, che era considerata importantissima. Un po’ come nel cinema: chi aveva fatto un film, il giorno dopo comprava il giornale per vedere cosa avesse scritto il critico del suo lavoro. E anche noi che facevamo televisione stavamo tutti lì a comprare L’Espresso, dove scriveva Sergio Saviane (il primo critico importante della televisione), per leggere le sue opinioni su questo o su quel programma. Adesso possiamo dire che, a eccezione di Aldo Grasso, non c’è più una vera critica televisiva, non la si trova più sui giornali.
Ecco, quindi tutto questo per dire che in fin dei conti io credo che sia una fase, questa, della televisione di intrattenimento, un po’ sofferente e minoritaria, e dall’altra parte si fa strada la “nuova televisione”, ovvero Netflix, con docufiction come SanPa, o L’Isola delle Rose. E tutto questo partendo dalla fiction, anche quella popolare come Montalbano, che in fondo in Rai è senz’altro molto buona; possiamo dire che la fiction salva un po’ tutto. Anche Sky, in questo senso, fa delle operazioni di qualità. Poi ci sono le reti minoritarie, che sono un po’ l’alibi culturale, come Rai 5 o Rai Storia, che non vengono però aiutate economicamente come sarebbe giusto, perché, appunto, si tratta più di un alibi.
Quindi, mi ripeto, visto lo scenario attuale il sofferente è soprattutto l’intrattenimento, quello tradizionale, che teneva la gente vicina alla televisione la sera, il sabato, in eventi importanti. Speriamo che qualcuno scopra nuovi filoni, idee nuove per l’intrattenimento televisivo.
In questo senso, però, riguardo all’intrattenimento e alla comicità, forse possiamo pensare al fenomeno di Una Pezza di Lundini: magari non possiamo definirlo come un esperimento davvero “nuovo”, ma l’attenzione che ha suscitato non potrebbe segnare il principio di qualcosa?
Quello è sicuramente un segnale, sì, dell’esigenza di trovare qualcosa di nuovo. Perché la gente credo che cerchi questo: qualcosa di nuovo, disperatamente. E spesso, visto che c’è carenza di divertimento, può avere fortuna chiunque. Per esempio, Stasera Tutto è Possibile, oppure Made in Sud, vengono guardati perché è l’unica maniera per sfuggire alla televisione “seria”: ci si accontenta perché c’è esigenza di programmi di evasione. E proprio su questo bisognerebbe lavorare.

Riguardo a questa ricerca di programmi di evasione, avvicinandoci alla conclusione di questa chiacchierata, credo sia giusto parlare anche della tua ultima esperienza televisiva, legata, come hai detto tu stesso, al Channel: Striminzitic Show.
Striminzitic è stata un’antologia di cose fatte durante il lockdown, di cose trovate nel mio archivio personale e anche di cose non mie, scoperte. Quel tipo di programma d’archivio in cui si spiega il pezzettino di Cochi e Renato o di qualche programma antico.
La mia principale preoccupazione è che i ragazzi, i millennials, conoscano le fondamenta dello spettacolo, della radio, della televisione, del cinema, della musica, perché solo se si hanno le fondamenta si inventano cose nuove, e questo l’ho capito dalla mia stessa carriera. Se cerchi di inventare cose nuove senza partire dai fondamentali fai una fatica terribile e puoi soltanto durare poco. Frassica, per esempio: la sua lunga carriera è dovuta al fatto che lui è un grande studioso di umorismo; ha cominciato con noi, studiando me, Mario Marenco, Boncompagni e ha capito i meccanismi umoristici. Quando veniva a sentire le nostre registrazioni, lo vedevo scrivere e gli chiedevo: “ma che stai scrivendo?”; lui mi rispondeva: “piglio appunti!”.
Vuoi dire che Frassica assisteva alle registrazioni di Alto Gradimento?
Sì: quando facevamo la radio, lui cominciò a venire da noi. Io gli assegnai una piccola rubrica sulle feste patronali, però lui restava anche per ascoltare quello che registravamo noi, con un quaderno. Perché appunto prendeva appunti sul lavoro di Marenco, che è stato un grandissimo maestro dei meccanismi surreali che ancora oggi Nino Frassica usa. Capisci, analizzava i meccanismi e ha imparato; gli strafalcioni verbali, sempre con un doppio significato, i giochi di parole… Tutte cose che necessitano studio. Tant’è vero che dura moltissimo; adesso è anche uscito un suo libro, Vipp.
Tirando le somme su quanto ci siamo detti, potremmo dunque affermare che con Striminzitic hai portato in televisione la stessa volontà che c’è dietro il Channel.
Sì, ritornando alla missione si tratta sempre della stessa: che i giovani possano trovare un repertorio, un palinsesto che fornisca gli elementi fondamentali, per capire e per andare avanti.
Secondo me non si può fare l’umorismo romano, per esempio, senza partire da Aldo Fabrizi, da Gigi Proietti, Enrico Brignano, e andando avanti. Vale lo stesso per i personaggi romagnoli, bolognesi, ma anche milanesi. Per arrivare ad Aldo, Giovanni e Giacomo devi partire dai predecessori di Cochi e Renato. Insomma, si tratta della grande fatica che si fa per la preparazione, e riguarda tutto, anche le altre discipline: bisogna partire dai fondamentali.
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