
Una critica a Sanpa, documentario Netflix sulla comunità di San Patrignano
Intorno a Sanpa e a San Patrignano
San Patrignano viene fondata nel 1978. L’eroina nel 1978 dilaga nelle strade da anni e molte comunità cominciano a sorgere autonomamente sparse per la penisola per colmare un vuoto di Stato: istituzionale e politico. Il boom dell’eroina in Italia si deve far risalire all’inizio degli anni settanta, ma il dibattito sulla tossicodipendenza, come ricorda Vanessa Roghi nel suo Piccola città. Una storia comune di eroina (Laterza, 2018), inizia nel 1954, quando in Italia viene modificata una legge del lontano 1923 sul consumo delle sostanze stupefacenti. Tuttavia l’emendamento non porta buone notizie, perché consumatori e spacciatori vengono messi sullo stesso piano; il che significa stesse pene, stessi trattamenti giudiziari (e capirete bene le conseguenze). Nel 1975, dopo che il problema della tossicomania diventa insostenibile e sotto gli occhi di tutti, tanto da parlare di “epidemia” della droga, si rimette mano alla legge, e l’indirizzo ideologico non muta: ne esce una legge illiberale e «psichiatrizzante» (Jervis), aggravata da una visione farmacologica della tossicodipendenza. In questo modo si comincia a somministrare nei centri statali il metadone, e Carlo Rivolta smonta l’entusiasmo con cui la medicina era stata accolta scrivendo nei suoi reportage su «la Repubblica» dei “dannati” che si presentavano in vista della loro dose.
Infine, rieccoci al 1978: comunità e legge Basaglia; da un lato chiudono i manicomi (dove prima i tossicodipendenti venivano spediti), dall’altro aprono dei centri dove il confine tra cura e reclusione è labile, sfumato in base alle soggettività laiche o religiose al loro vertice. Il “drogato” si profila sempre più come un malato mentale, «un corpo estraneo, che si isola, quindi da isolare» (Roghi), a cui schieramenti di destra e sinistra provano ad associare un volto, una storia, un milieu di appartenenza; da qui le figure del capellone, del fannullone, del reietto disinteressato alla politica. Tutte maschere, stereotipi, astrazioni di una classe dirigente (e di una stampa) incapace di reagire ad un fenomeno sociale indomabile e apparentemente inspiegabile. In questo contesto politico e culturale si inscrive (anche) la figura di Vincenzo Muccioli, medium e imprenditore, fondatore della comunità di San Patrignano, sulle colline di Coriano. Al posto del podere di famiglia, l’omaccione con il «physique du rôle del capo carismatico», come lo ha descritto efficacemente Andrea Colombo su «il Manifesto», raduna attorno a sé un gruppo d’amanti di sedute spiritiche – una sorta di setta, a tutti gli effetti – e con loro avvia quello che da lì a poco sarebbe diventato il centro di recupero e accoglienza più grande d’Europa, con due direttive: l’eliminazione della cura con il metadone e una struttura patriarcale, fortemente gerarchica, dove i “figli” tengono in custodia altri “figli”, i neo-arrivati. Lo stato di polizia è alle porte, e Sanpa – Luci e tenebre di San Patrignano comincia da qui, raccontando conseguenze e risvolti tragici.

Sanpa progressivamente, come nella realtà, viene inglobata dall’ingombrante figura di Muccioli. Ad un certo punto, dal “processo delle catene” in poi, esiste solo lui, non c’è spazio per nessun altro, nemmeno per il contesto storico in cui la comunità è immersa. Il primo difetto della serie è proprio questo: la mancanza di contesto, grave per un prodotto che vuole essere documentario, già in una questione a tal punto controversa.
Ma facciamo un passo indietro. Sanpa, da poche settimane presente nel catalogo Netflix, è una serie scritta da Carlo Gabardini, Gianluca Neri, Paolo Bernardelli e diretta da Cosima Spender. Una miniserie di cinque puntate, di circa 50-60 minuti, dai titoli significativi: Nascita, Crescita, Fama, Declino, Caduta. Ci viene mostrato un processo biologico di composizione e decomposizione, appunto di crescita e declino, per mano del suo stesso creatore. Il lavoro di recupero e scelta dei materiali d’archivio è certamente degno di lode, perché su più di duecento ore di filmati di interviste, frammenti di processi giudiziari e programmi televisivi gli sceneggiatori sono riusciti a ricavare un prodotto coeso di più o meno cinque ore. Nessuna voce extradiegetica racconta le sorti della comunità. A ricordarci gli albori e le ombre di San Patrignano sono ex-tossicodipendenti messi a nudo di fronte alla telecamera, persone con la necessità di raccontare e testimoniare una storia, come già nel 1972 Guido Blumir e Marisa Rusconi avevano fatto in La droga e il sistema. Cento drogati raccontano. Sì, perché i “drogati” sono pure persone normali – e questo la serie lo sbatte in faccia allo spettatore –, negli anni ottanta erano ragazzine di quindici anni, come Natalia Berla. I racconti e le riflessioni si incastonano tra i residui visivi del passato, in una dialettica che non ammette colore politico e che sconfina nella memorialistica, nel diario privato aperto al pubblico. Toccante, per questo motivo.
Dove sono le luci?
Per comprendere il fenomeno “eroina” negli anni settanta e ottanta (e non solo) basterebbe guardare gli ultimi minuti strazianti del documentario Eroina S.p.a. di Giuseppe (aka Joe) Marrazzo, un film-inchiesta del 1980 sul traffico di stupefacenti controllato dalla mafia di Palermo, in collaborazione con la malavita marsigliese e americana. Marrazzo intervista il padre di un tossicodipendente obbligato a nascondersi a causa dei debiti contratti con gli spacciatori. È un padre disposto a tutto, persino ad uccidere, per salvare il figlio. Nella scena dopo, vediamo Marrazzo nella sala di montaggio che ci avverte della durezza delle immagini che seguiranno. Siamo a Verona, in pieno centro, e Marrazzo intercetta due ragazzi tossicodipendenti, uno dice: «Ho cominciato perché avevo una situazione familiare difficile», e il suo amico risponde: «Ma cosa dici l’abbiamo deciso noi, non dare la colpa alla famiglia. Solo ora sappiamo che è difficile tirarsene fuori, se l’avessimo saputo subito… io cerco di smettere ma non riesco». Una questione di disinformazione, «una questione privata?», come si chiede Vanessa Roghi.
Da queste due sequenze ritorna, in una diversa prospettiva, la domanda su cui si fonda la serie: quanto male si è disposti a fare, per compiere il bene? Questa domanda fa del caso Muccioli un’epica, e San Patrignano sfondo e cronotopo dove il conflitto tra bene e male e il malessere di un paese intero fermentano ed implodono. San Patrignano, secondo la narrazione degli autori, è il teatro di una lotta politica, la cui carica simbolica con il progredire del processo di decomposizione e marcescenza si tinge di tenebre e delitti (Natalia Berla e Roberto Maranzano). Ma davvero, dall’altra parte dell’ombra, c’è mai stata una luce, se non quella proiettata dagli investimenti dei Moratti, o dagli scopi politici e produttivi di Muccioli? La disperazione delle famiglie e il loro affidamento verso lo schiaffone e il lavoro forzato si può considerare una luce? Il sottotitolo la ammette, in contrapposizione alle «tenebre», in fede ad una parte di società che osannò Muccioli, tanto da spingerlo in politica e garantirgli una posizione pubblica rilevante. Sempre Vanessa Roghi, sulle colonne del «Domani», ha dipinto alla perfezione il suo ruolo: «il salvatore o il padre padrone, comunque la figura forte che deresponsabilizza il resto della società che delega e si volta dall’altra parte.»

Tra documentario e intrattenimento
Cosima Spender e Carlo Gabardini, in un’intervista rilasciata per Netflix, invocano un’intenzionalità documentaristica, quindi una veduta imparziale e neutrale sugli eventi. Il prodotto finale, effettivamente, non prende parte a nessun discorso contro o a favore di Muccioli, seppure un criticismo verso i metodi delle catene e degli incarceramenti traspaia sottilmente durante la serie, nella propensione (forse non sua, ma della realtà dei fatti) a mettere in scacco i superstiti testimoni difensori della comunità (Red Ronnie, primo fra tutti, che in queste settimane delizia gli utenti di Youtube con arringhe apologetiche abbastanza confuse sul suo patrono e padrone, da buon vassallo). La miniserie invita al confronto – e dal chiacchiericcio pubblico che ha provocato sembra che ce ne fosse bisogno – ma, ancora più importante, s’incarica di ricordare delle storie sepolte per anni e che da anni richiedevano un megafono per essere diffuse ad un pubblico più vasto.
Il dubbio che m’assilla, comunque, non svanisce: si poteva dire di più, abbandonare una posizione onorevole, ma anche relativamente comoda? È seriamente solo questo il compito di un documentario serializzato? Queste domande ricadono ovviamente sulla scelta dei contenuti all’interno della narrazione, come l’assenza di una descrizione contestuale o il generale sorvolo sugli interessi economici gravitanti intorno alla comunità e alla condizione degli operai-schiavi nella fabbrica-regime totale. Forse sono richieste eccessive, e inutili, poiché Sanpa è anche, se non soprattutto, un prodotto d’intrattenimento oltre che una documentazione più o meno storica di un pezzo d’Italia. Il ritmo della serie è incalzante, talvolta ripetitivo, e sembra sapere dove fermarsi e rallentare: sulle confessioni e gli autoritratti che i testimoni danno di loro stessi, con una consapevolezza agghiacciante. Sanpa deborda nella fiction, nella drammatizzazione – e dunque trasfigurazione – degli eventi, che al contrario vengono narrati (giustamente?) con una pretesa e illusoria oggettività; sta qui, credo, il punto di partenza e il nocciolo delle critiche che sono state rivolte alla serie dagli estremi difensori della comunità: l’associazione di San Patrignano stessa, il figlio di Muccioli, l’officiante Red Ronnie e qualche giornalista nostalgico. I precedenti si trovano nello stesso catalogo Netflix, ad esempio Going Clear – Scientology e la prigione della fede, dove anche lì erano ex adepti a parlare ed anche lì vigeva un tono investigativo e ricostruttivo.
La storia della droga non si chiude nel 1995, con la morte di Vincenzo Muccioli. Il suo valore politico si è scaricato e il dibattito sulle tossicodipendenze è scomparso dai radar delle istituzioni. Purtroppo, la realtà è diversa e ancora drammatica. Il sito gestito da Salvatore Giancane e Ernesto de Bernardis «Geoverdose» conferma che nell’ultimo anno ci sono stati 203 decessi per overdose, poco meno della metà per eroina. Il problema non appartiene al passato, e Sanpa, con i suoi difetti, in qualche modo ci ha ricordato, indirettamente, che devono esistere altri metodi di salvezza, oltre alla reclusione e all’isolamento. Inoltre ci ricorda, sempre indirettamente, che sarebbe ora di demistificare la figura del “drogato”, di non credere che l’eroina abbia una fazione politica privilegiata dove diffondersi, di imparare dalla Storia e dalle storie.
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interessante recensione ;o)