
Genesi della maschera del gelo incendiario | Eduardo 120
«È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro, così ho fatto.». Il 15 settembre 1984, appena un mese prima di spegnersi, Eduardo De Filippo riassumeva così, davanti al pubblico del Teatro Antico di Taormina, un’intera esistenza dedicata al teatro, con la voce tremante, carica d’anni, ma animata da una passione che a quegli anni non sapeva arrendersi. Parole d’una schiettezza ponderata e precisa, scandite senza orpelli o fronzoli, che restituiscono immediatamente agli ascoltatori un’istantanea del mondo che ha circondato ed impregnato la vita dell’oratore. Eduardo e il gelo del teatro. Due realtà in continua e reciproca interdipendenza, spesso addirittura in simbiosi.
Eduardo nasce a Napoli, più precisamente a Chiaia, nel 1900. Biologicamente è figlio di Eduardo Scarpetta, uno dei più importanti autori e interpreti del teatro napoletano dell’epoca, e della sarta teatrale Luisa De Filippo. Metaforicamente è stato generato e cresciuto proprio da quella particolare qualità di gelo. Il padre non lo riconosce come figlio legittimo, così come non riconoscerà altri sei dei suoi nove figli, in quanto nati da relazioni extraconiugali con la sorellastra e con la nipote di sua moglie Rosa De Filippo (fra questi figurano anche i celebri Peppino e Titina). Ciò non impedirà, tuttavia, a Scarpetta di crescere Eduardo e di indirizzarlo al palco con un vigore e una meticolosità che eccedono l’amore paterno. Basti ascoltare le parole di De Filippo, quando ricorda le due ore giornaliere che doveva passare, durante la sua infanzia e la sua adolescenza, legato ad una sedia a copiare commedie altrui, a volte proprio quelle scritte dal padre stesso. Questa pratica provocò spesso nel giovane artista un senso di rifiuto verso le battute che doveva recitare una volta salito sul paco, ma servì, sempre a detta di Eduardo, ad apprendere ed interiorizzare l’umiltà che deve accompagnare chi si accinge a varcare «la grande porta del teatro».

De Filippo cresce, varca quella grande porta, e trova ancora il gelo del teatro ad accoglierlo e a plasmarlo, fino a caratterizzarne lo strumento più importante per un attore dell’epoca: la voce. Eduardo, infatti, comincia a recitare per la nota compagnia di Vincenzo Scarpetta, suo fratellastro, che mette in scena prevalentemente le commedie del padre in alcuni fra i teatri più popolari di Napoli: Orfeo, San Carlino, Rossini. E proprio nei camerini di quest’ultimo, evidentemente molto freddi e umidi, i costumi di scena finiscono sempre per bagnarsi, costringendo gli interpreti ad entrare sul palco con panni fradici addosso. Ne conseguono raffreddori, polmoniti e altri malanni connessi. L’apparato fonatorio del giovane Eduardo ne risente gravemente: in poco tempo la sua voce squillante (sosteneva di poter cantare da soprano da ragazzo) si fa particolare, velata, unica. Forse anche per questa ragione la sua recitazione è risultata sempre così vera e mai sopra le righe. Il gelo gli aveva portato via la possibilità di fare il trombone o gigioneggiare, offrendogli in cambio un timbro naturalistico e gentile, anche quando ben appoggiato, che lo rendeva inconfondibile.
Ormai De Filippo è una personalità matura umanamente e artisticamente, pronto al grande salto che lo condurrà alla celebrità a livello nazionale e mondiale, prima attraverso l’esperienza con la compagnia comica fondata coi suoi fratelli di sangue, «I De Filippo», poi grazie alle trasposizioni cinematografiche e televisive delle sue opere. Una personalità che pare completamente pregna e pervasa dal gelo del teatro: colleghi, amici, familiari, tutti coloro che entrano in contatto con il suo lavoro (eccezion fatta, forse, unicamente per l’amatissima sorella Titina e per il figlio prediletto Luca) dipingono il ritratto di Eduardo con parole glaciali. Schivo, spigoloso, autoritario. Durante il suo famoso ultimo discorso pubblico a Taormina, anche lui riprenderà e, in certa misura, confermerà l’autenticità di questo ritratto: «Voi sapete che io ho la nomina che sono un orso, ho un carattere spinoso, che sfuggo, sono sfuggente… Non è vero… Se io non fossi stato sfuggente, se non fossi stato un orso, se non fossi stato uno che si mette da parte, non avrei potuto scrivere 55 commedie».

In effetti gli aneddoti che avvalorano la sua «nomina di orso» si sprecano. A partire dalla arcinota lite col fratello: corre l’anno 1944, «I De Filippo» si trovano dietro alle quinte del teatro Diana di Napoli, Peppino, stanco dell’autoritarismo di Eduardo, sale in piedi su una sedia, davanti a tutta la compagnia, e scandisce ripetutamente la parola “Duce”, accompagnandola con saluti romani. Gli astanti devono separare i consanguinei con la forza. Fine della relazione professionale fra i due. Per una, seppur timida e parziale, riappacificazione sul piano personale bisognerà aspettare quasi trent’anni.
Le controversie, poi, interne al rapporto d’amicizia che lo legò per quasi vent’anni a Carmelo Bene, per la complessità umana e la caratura intellettuale dei due personaggi in questione, meriterebbero la stesura di un articolo a parte (si consiglia al lettore la visione del filmato di una lezione tenuta dalla coppia di artisti all’Università della Sapienza, rintracciabile su YouTube, dall’azzeccatissimo titolo Dialogo tra sordi). In sintesi, dopo due decenni di continui e reciproci attestati di stima e numerosi tentativi falliti di collaborazioni artistiche, alla prima tournée realizzata finalmente insieme, fra il 1981 e il 1982, i due si scontrarono con violenza per ragioni contrattuali. Le repliche dello spettacolo, un mix tra la Lectura Dantis di Bene e una raccolta di poesie scritte e interpretate da Eduardo, vennero immediatamente sospese. Nessuno dei due tornerà apertamente sull’episodio ma, nella sua autobiografia Vita di Carmelo Bene, il genio salentino ci terrà a sottolineare come considerasse Peppino un attore migliore del fratello, il migliore in assoluto della farsa napoletana, superiore persino a Totò.
Anche quest’ultimo fu amico di Eduardo, specialmente negli anni giovanili, e fra i due non sono riportati conflitti. E questo, già di per sé, fa notizia. Tuttavia, quando Eduardo, nell’unico frammento d’intervista su questo argomento arrivato fino a noi, commenta questo legame, qualche spiffero di gelo fa breccia nella patina dorata dei ricordi. In breve, negli anni Venti, durante un periodo di infermità che costrinse diverse settimane De Filippo a letto lontano da casa, a Palermo, De Curtis si prendeva affettuosamente cura del malato prima e dopo lo spettacolo serale, medicando le articolazioni dolenti e alleggerendo l’animo con la sua irresistibile comicità. Le risate provocate dalle buffe macchiette di Totò, acuivano, però, i dolori di De Filippo al punto che, una sera, Eduardo esasperato sbottò e intimò all’infermiere improvvisato: «Vatténn, fetente!». Un orso conserva il suo istinto anche quando accarezzato con dolcezza.
Insomma, il gelo del teatro non si limita a ricoprire solo l’ambito lavorativo della vita dell’autore-attore napoletano, ma pare non risparmiare neppure i rapporti sociali ed affettivi. E, come nel più proverbiale dei circoli viziosi, la visione e l’interpretazione di questi rapporti, fondamenta della società umana di cui il teatro naturalista è specchio, condizionano fortemente gli intrecci e le trame dei capolavori di De Filippo. Ecco, allora, che la freddezza e l’aridità causate dalla monotonia nelle relazioni sentimentali stabili divengono oggetto centrale di Questi Fantasmi! o di Filumena Marturano, per menzionare due tra le opere di maggior successo nel vasto repertorio di Eduardo. Di più: tradimenti, inganni e incomprensioni costituiscono il sale della comicità dei testi citati e di quasi tutte le ventidue commedie appartenenti al fortunato ciclo della Cantata dei giorni dispari. Sul palco e sugli schermi, il pubblico di tutto il mondo vede, sente e si riconosce nel gelo che s’insinua nei monologhi disillusi dell’ingenuo Pasquale Lojacono, dell’immaturo Domenico Soriano o dell’irremovibile Filumena.
Però, se è vero che rappresentare la realtà sociale italiana postbellica (il ciclo dei giorni dispari va dal 1945 al 1973) comporta necessariamente l’inclusione di temi gelidi quali miseria, paura e insicurezza, gli spettacoli di De Filippo si risolvono quasi sempre con finali almeno parzialmente rincuoranti per i protagonisti, in alcuni casi con vere e proprie epifanie joyciane colme di speranza intorno al futuro dei personaggi. Non si tratta di spicciola retorica acquiescente che mira a tranquillizzare lo spettatore, bensì di svolte repentine ed accessibili al grande pubblico che mettono in luce la fondamentale polarità dell’animo umano. Estrema profondità di analisi facilmente fruibile da tutti, o Eduardo non sarebbe Eduardo. È come se nei suoi finali De Filippo ci mostrasse l’altra faccia del tanto menzionato gelo del teatro, che, come ogni sentimento teatrale che si rispetti, estremizza, per necessità di sintesi, le emozioni che si provano nella vita quotidiana. Questo gelo, pertanto, non coincide mai completamente con la sterilità della depressione o della rassegnazione, al contrario descrive una condizione generativa da cui può scaturire un incendio di passioni positive. Funziona esattamente come l’alternanza stagionale di inverno e primavera.
Bastano un moto di sincerità, un gesto inaspettato o una situazione imprevista e il gelo svanisce per lasciare spazio all’incendio: per Pasquale Lojacono è il dialogo con il presunto fantasma, che gli concederà di abbandonarsi ad un monologo rivelatore finalmente scevro di calcoli utilitaristici e orgoglio; per Domenico Soriano e Filumena Marturano è il «papà!» pronunciato con spensieratezza e all’unisono dai tre figli; per Eduardo De Filippo è l’alzarsi del sipario e l’inizio di una nuova recita. Ritornando al discorso di Taormina: «È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro, così ho fatto… Ma il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni. E l’ho pagato. Anche stasera mi batte il cuore. E continuerà a battere. Anche quando si sarà fermato».
In fondo, il quid che ha reso Eduardo tanto grande e indimenticabile, è racchiuso probabilmente proprio nella sua capacità di restare in equilibrio sul filo sottile che separa i due estremi del gelo e dell’incendio, incarnandoli entrambi in un iconico mezzo sorriso, un po’ sconfitto e un po’ beffardo, che pare potersi trasformare, da un momento all’altro, in grassa risata o in pianto disperato. Quest’abilità l’ha innalzato al ruolo più ambito per un attore di teatro. Il ruolo di maschera, che continua a vivere nell’immaginario delle generazioni successive, anche se il volto che le ha dato la forma è ormai scomparso. Rimane e rimarrà a noi, ancora per lungo tempo, la maschera di Eduardo. La maschera che rappresenta contemporaneamente entrambe le facce della medaglia: lo scoramento e la speranza, quel gelo incendiario che anima il teatro e chi di teatro vive la sua vita.
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Eduardo 120 | Sabato, domenica e lunedì di Sorrentino e Servillo
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