
Ethos – Tutta un’altra serie Netflix
Ethos (in turco Bir Başkadır), che approda su Netflix quasi in sordina alla fine del 2020, è una serie turca scritta e diretta da Berkun Oya, figura di primo piano nel panorama teatrale e cinematografico di Istanbul nonché assiduo investigatore di quella componente “etica” dell’universo relazionale turco che il titolo tradotto sembrerebbe suggerire. Ma per quanto “etico” resti l’orizzonte prescrittivo – o ancor meglio etico-religioso – a cui i personaggi fanno affidamento per definirsi “nel giusto” o meno, l’impianto morale è un puro effetto collaterale, un livello subalterno ad una dichiarazione di intenti primariamente analitica.
È il titolo originale infatti, Bir Başkadır, a orientare lo spettatore lungo gli otto episodi della stagione. Tutt’un’altra cosa, la traduzione letterale che immediatamente reimposta l’atteggiamento scopico dello spettatore: “un’altra cosa” non indica un meccanismo di mistificazione attraverso le immagini – che riflettono realisticamente le vite degli abitanti di Istanbul – così come non nutre la componente thriller del prodotto. Le immagini non sono costruite per celare o svelare verità nascoste sui fatti. Bir Başkadır è un’indagine sull’ “alterità” in quanto oggetto e dispositivo visuale, sull’incontro con l’”altro” e il suo riconoscimento, sull’esistenza di un punto di vista differente rispetto a quello cui vengono puntati contro i riflettori. Con Bir Başkadır, l’autore riduce l’universo etico della narrazione ad un orizzonte proto-etico, nel quale i rapporti tra i personaggi, e di rimando dell’intera Istanbul contemporanea, si giocano sul terreno dell’identità e non della giustizia, volgendosi alle condizioni primarie per definirsi in quanto “io” e in quanto “altro” e non alle imposizioni di un’alterità legiferante senza volto (la legge dello Stato e di Allah).

La serie ruota attorno al percorso terapeutico di Meryem (Öykü Karayel perfetta nel ruolo), una giovane mussulmana affetta da misteriosi svenimenti senza apparente origine clinica, per poi interessarsi, di volta in volta, a nuovi personaggi legati a Meryem, a Peri (la terapeuta), alla terapeuta di Peri, alla famiglia di Meryem, tutti affetti da una poco chiara forma di malessere. La serie si presenta infatti come un percorso di analisi collettiva volta a determinare le condizioni diagnostiche di un indistinto ma imperante “malessere turco” contemporaneo, che prima ancora di annidarsi nelle contraddizioni tra gli stili di vita della popolazione mussulmana e di quella laica, si manifesta nell’incapacità di comunicare, nel quotidiano avvilimento del “verbo” come strumento espressivo e creativo. I dialoghi – cui va una menzione particolare per la qualità della scrittura e per le capacità attoriali mostrate nel performarli – sono infatti, in un primo momento, veri e propri terreni pericolosi di confronto, dove la parola è dominio esclusivo di uno degli interlocutori e, quando condiviso, possiede esclusivamente una prospettiva agonistica; emblematiche sono le discussioni tra il fratello di Meryem Yasin e sua moglie Ruhiye o tra Gülbin e sua sorella. La terapia offre allora, innanzitutto a Meryem, la configurazione di un perimetro sicuro entro cui poter parlare liberamente, cui seguirà la progressiva conquista di plurimi spazi dialogici privi di minaccia.

Il passaggio di focus da un personaggio all’altro avviene nel profilarsi di un “incontro”, casuale o premeditato, una vera e propria consegna del testimone narrativo che permette di procedere dalle vicende che ruotano attorno a Meryem a quelle che riguardano colui o colei che incontra, in un fluido sviluppo della narrazione corale attraverso un sistema di “occasioni”. L’incontro appartiene a pieno titolo alla collezione degli eventi fenomenenologici utilizzati da Berkun Oya: è nell’incontro con l’”altro” che l’”io” si specchia, visualizzando il proprio modo di essere e quanto questo differisca da quello di chi ha incontrato. L’adozione di un impianto fenomenologico permette ad Ethos di smarcarsi dal più comune studio antropologico dell’opposizione donna mussulmana-donna laica – Meryem e Peri – per trattarla primariamente come relazione tra donne situate in zone culturali lontane, e quindi munite di visuali differenti. È la metabolizzazione delle differenze ad interessare il regista, non le loro specifiche articolazioni, interesse intelligentemente messo in scena nel confronto tra Peri e Gülbin, due donne “diversamente” laiche.

Anche noi spettatori finiamo per confrontarci inevitabilmente con i personaggi cui la regia ci avvicina progressivamente, fino a rendere quasi ingombrante il loro sguardo digitale: la macchina da presa li inquadra da lontano, o attraverso ulteriori cornici diegetiche, per poi indugiare sui loro volti con prolungati primissimi piani. A fare da ulteriori cornici sono i materiali di repertorio in 4/3 che chiudono quasi tutti gli episodi – perlopiù estratti da trasmissioni televisive turche degli anni 80-90, – esibizioni canore che, se da un lato fanno da tracce audio d’impronta documentaristica per i titoli di coda, dall’altro moltiplicano l’esperienza di fruizione dello spettatore che si ritrova a confrontarsi con una Turchia iper-visibile.

Anche gli oggetti di scena sono costruiti per rimandare ad “altro” e non al loro semplice utilizzo. La torta di carote preparata da Meryem per Sinan, la focaccia preparata per Peri, il rossetto di Hayrünnisa, sono tutti dispositivi identitari che operano come controfigure dal forte impatto scenico. Gli oggetti sono per Berkun Oya indici di identità subconscia: rivelano oggettualmente il non detto verbale, esprimono contenuti repressi strizzando l’occhio al sostrato psicanalitico sui cui il percorso terapeutico di Meryem è orientato. Ma gli oggetti sono innanzitutto dispositivi di decrittazione visuale, utilizzati nel montaggio come indizi referenziali – la torta di carote sul tavolo di Sinan anticipa il volto di Meryem intento a guardare la love story offertale dalla sua soap opera preferita, e suggerisce l’infatuazione della ragazza per il suo datore di lavoro.
Infine, Bir Başkadır è anche la proposta di una forma “altra” di serialità, posizionandosi sull’orizzonte produttivo turco come prodotto anomalo rispetto alla soap opera, principale modello di narrazione a puntate ad alto indice di gradimento. Così, in un atto meta-seriale, Berkun Oya fa di Meryem una grande appassionata di soap opera, e l’attrice protagonista del programma, Melisa, uno dei personaggi della sua non-soap. Che questa anomala proposta Netflix possa essere anche per la serialità turca l’occasione per riconoscersi “invecchiata” di fronte ad un prodotto che è letteralmente “Tutta un’altra serie”?
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