
Intervista a Bruno Bozzetto – La sottile arte dell’animazione
Abbiamo incontrato Bruno Bozzetto, storico protagonista dell’animazione italiana e internazionale, creatore di personaggi iconici come il Signor Rossi e Super Vip. In quest’intervista, Bruno Bozzetto ci parla del suo lavoro, delle sue influenze e di come vede il proprio stile d’animazione, con uno sguardo verso il futuro del linguaggio e del suo studio – lo Studio Bozzetto – gestito oggi dal figlio Andrea e da Pietro Pinetti.
Intervista realizzata con la collaborazione di Francesco Gamberini e Luca Carotenuto
Guardando agli anni in cui ha sviluppato il suo stile, cosa e chi l’ha influenzata di più?
Quando ho iniziato io – stiamo parlando degli anni ’57 e ’58, quindi molti “mesi” fa – diciamo che c’era pochissimo in giro per quanto riguarda il cinema normale e spettacolare, tutto quello che si vedeva era Walt Disney e praticamente nient’altro. Io avevo avuto la fortuna di andare a Londra per impara l’inglese e di vedere i cinema Cameo dove proiettavano tutti i giorni, mattino e pomeriggio, ininterrottamente, cortometraggi di Tom & Jerry e di Tex Avery, che non appartenevano al giro di Disney; ho poi avuto l’altra fortuna, intorno al 1960, di andare a Cannes e di frequentare annualmente il Festival di Annecy: lì ho avuto l’opportunità di vedere film che qui da noi erano assolutamente sconosciuti, poiché non erano pellicole da circuito; ho così scoperto il National Film Board canadese, la scuola di Praga, i film francesi e ho avuto la fortuna di ammirarli ed essere sicuramente influenzato da loro. Il mio primo film nasce dal National Film Board e soprattutto da un cortometraggio che aveva prodotto Walt Disney intitolato Toot, Whistle, Plunk and Boom – che sarebbero i suoni di quattro strumenti musicali: trombe, fischio, strumenti a corda e percussioni – che durava circa quaranta minuti e aveva vinto l’Oscar, realizzato da Ward Kimball – animatore importantissimo nella Disney – che parlava della storia della musica utilizzando personaggi che anche io sapevo disegnare: se io cercavo di imitare la Disney ero ridicolo, perché non potevo imitare uno studio con centinaia di animatori, però quando ho visto questo film realizzato con disegni semplici, stilizzati, ho capito che quel genere di animazione sapevo farla anche io; quindi questo è stato ciò che mi ha influenzato di più. Parallelamente, sempre al primo festival di Cannes a cui ho partecipato, avevo visto Little Island, di Richard Williams – animatore de La Pantera Rosa e Roger Rabbit, al tempo già un personaggio incredibile – dove anche qui c’erano personaggi stilizzatissimi e che parlava di filosofia, di guerra, della morte. Questi sono i film che mi hanno maggiormente influenzato, insieme ai titoli della Zagreb Film che erano particolarissimi, intelligenti, sociali e che mi hanno dato un indirizzo non tanto verso uno stile grafico, quanto contenutistico, spingendomi verso soggetti più profondi, che parlavano dell’uomo, della società, ecc.

Il suo modo di fare animazione ha saputo adattarsi all’evoluzione tecnologica, pur mantenendo una cifra stilistica ben riconoscibile in ogni declinazione. Come ha vissuto il passaggio al digitale?
Il primo contatto è stato difficile, perché mi avevano chiesto di realizzare un piccolo film per i social, molto stilizzato, utilizzando una tecnologia – Flash – che non sapevo cosa fosse; non avendo nessuno in studio che usasse i computer – era il 1997, eravamo ancora legati all’animazione tradizionale a matita – ho fatto molta fatica, ma ho scoperto che era un mezzo straordinario, perché mi permetteva – specialmente per disegni semplici e stilizzati – di evitare le intercalazioni. Siccome sono sempre stato un po’ un’aquila solitaria e il mio sogno era riuscire a realizzarli da solo, perché nel momento in cui dovevo chiamare animatori, intercalatori, coloritori, ecc. non solo diventava una spesa, ma dovevo sottostare alle esigenze di tempo, disponibilità, capacità stilistiche, selezionando le persone; stando su personaggi, o meglio, simboli stilizzati – il primo film si chiamava Europa Italia – ho visto che se io utilizzavo un cerchio, un quadrato, o comunque un simbolo, il computer me lo muoveva da solo, e questo mi ha aperto un mondo incredibile. Però, per fare un film dovevo trovare una storia che si adattasse a questo tipo di disegno, e quindi mi è venuto in mente di guardare un mondo dall’alto in cui un cerchio era un uomo e un rettangolo una macchina; ho trovato l’idea – cioè quella di fare un paragone tra il comportamento degli italiani e quello degli europei – la cosa ha funzionato molto bene e col computer potevo controllare perfettamente e personalmente ogni fotogramma, quindi il ritmo narrativo e il timing, che è fondamentale per realizzare una gag. Ho quindi realizzato il mio primo film e non mi sono più fermato, perché ho scoperto che la tecnologia non mi tarpava le ali nel lavoro, ma mi aiutava e basta. Chiaramente, realizzando questi film e utilizzando questa tecnologia dovevo usare un disegno ancora più semplice di prima: io ho sempre amato la stilizzazione, la povertà nel disegno, e qui ero addirittura forzato a utilizzarla, perché Flash si comportava bene soprattutto con oggetti semplici, ma non mi sono mai pentito di questo, perché era la mia strada. Anzi, un po’ scherzando qualche volta ho detto che con Flash ho avuto la fortuna di ritornare alle origini, ai primi film che realizzavo con disegni molto poveri – Alfa Omega -, però con un controllo totale del mio lavoro. Credo che la tecnologia sia stata il più grande regalo che abbia ricevuto, ne sono felicissimo e tutt’oggi continuo a disegnare, ma non so più cosa siano la carta e la matita: quando mi chiedono un disegno a mano è il più grande dolore, perché devo tirar fuori la matita, la carta, ecc. e io ormai lavoro su computer; non è che non mi piaccia, anzi, ho passato la vita a disegnare su carta, quindi ovviamente mi piace, ma sono anche pronto ad abbandonare le cose a cui sono legato solo per un romanticismo perché cerco di essere pratico. Arrivano poi delle dissociazioni mentali che mi preoccupano: mi hanno chiesto di fare un disegno per fare un regalo a una persona, sono partito, ho fatto un abbozzo con un quadrato che non era nel posto giusto, allora con la mano ho fatto il movimento di spostarlo, talmente è l’abitudine; poi mi son reso conto e ho pensato «oddio devo ricominciare da capo», è assurdo! Però capisco che si possa essere romanticamente affezionati a certe cose, un po’ come la moviola, la giuntatrice: io ci ho passato la vita, le amo, ma adesso faccio tutto un montaggio con un pulsante, non c’è paragone!
Parliamo adesso del Signor Rossi, che resterà un’icona indelebile dell’ironia sull’italianità. Secondo lei, quanto c’è ancora, oggi, del Signor Rossi nell’Italia? Quanto possiamo ancora riconoscerci in questo personaggio?
Possiamo riconoscerci totalmente. Forse l’unica cosa che ci può allontanare da lui può essere il vestito: lui con quel cravattino e con quel cappello appartiene sicuramente a un’altra epoca, e questo mi riporta all’importanza della stilizzazione: più un personaggio è stilizzato, più dura nel tempo e quando lo caratterizziamo con dei particolari viene subito datato. Però il Signor Rossi, cambiandogli cappellino e cravattino, come rappresentanza dell’uomo comune è eterno, non invecchierà mai. Lui può trovarsi in qualsiasi situazione come uomo comune, come noi. Stiamo infatti ragionando in questi giorni sul fatto di riprendere il Signor Rossi per una serie televisiva e che vorremmo collocarlo nel mondo moderno, in mezzo alle diavolerie di cui parlavamo prima, ma con una mentalità più anziana: un po’ come un genitore o un parente che fa fatica ad arrabattarsi in mezzo ai pagamenti digitali, ai telefonini e i computer; ecco, lui è un po’ questo personaggio, che vuole adattarsi a un mondo che sta cambiando. Naturalmente entusiasta, lo prende al volo, cerca di inserirsi in ogni situazione come faceva prima, solo che si butta in queste avventure moderne senza essere padrone di quello che gestisce, per cui si possono creare tantissime situazioni divertenti, spiritose, magari mettendogli di fianco una nipotina un po’ nerd che sa tutto su queste cose. Insomma, ci sono delle possibilità di raccontare delle belle storie, ma io vedo che il Signor Rossi può essere sempre attuale, perché è un po’ un Fantozzi, un personaggio che, se noi lo mettiamo nel mondo, si comporta come ci comporteremmo noi: ha sempre una risposta, un problema, un dubbio, è sempre vivo. Lo vedo sempre attuale, magari sistemato un po’ graficamente e adattato ai gusti di adesso.
Ha nominato Fantozzi. Secondo lei, Paolo Villaggio, nel preparare il suo personaggio, può in qualche modo essersi ispirato al Signor Rossi?
Non sono nella testa di Villaggio e non posso rispondere a nome suo, ma credo che sicuramente sia stato influenzato, non tanto dal Signor Rossi, ma dal cartone animato in generale. Una gag che io ricordo è proprio esattamente uguale a quella che abbiamo fatto noi col Signor Rossi, quindi è possibile che il film lo abbia visto o che ne abbia visti alcuni prendendoli un po’ come riferimento. Non posso né sostenerlo né negarlo. Posso però dire che questa gag – in Fantozzi del 1975 – in cui lui va in un campeggio, arriva di notte e deve cominciare a montare la tenda vicino a dei tedeschi molto rigidi, si fa male, però non può urlare e corre fuori dal campeggio per farlo: ecco, io questa gag la vidi intorno al ’57/’58 in un film di Tex Avery dove due scalcagnati rapinatori entrano nella casa di uno sceriffo e mentre lui dorme sulla sedia a dondolo in una stanza, loro vanno in quella accanto e cercano di svaligiare la cassaforte; ogni tre per due uno si pesta il dito col martello, un altro si brucia la gamba con la fiamma ossidrica, ecc. e allora questi due, uno per volta, corrono fuori a razzo, vanno in cima ad una montagna lì vicino, cacciano urli spasmodici e ritornano dentro ricominciando a lavorare. Questa Villaggio l’ha presa pari pari da quel film; questo vuol dire che l’animazione gli piaceva, lo influenzava moltissimo e difatti il suo personaggio ha tantissime gag e situazioni che potrebbero essere del mondo dell’animazione. Qualcosa c’è, anche del Rossi, probabilmente.
Vip – Mio fratello superuomo ha predetto molte delle promesse del consumismo. Ad oggi possiamo dire che quelle promesse si sono realizzate? Se sì, chi ci salverà? Mini Vip o Super Vip?
Sì, si sono realizzate sicuramente, anche in maniera più subdola, perché nel nostro film si trattava molto rozzamente un missile nel cervello. Oggi, soprattutto con la pubblicità – anni fa imperversava in modo più forte anche nel cinema, visto che adesso la pubblicità, pur essendoci, ha cambiato un po’ forma e non è quella di un tempo – sicuramente si sono realizzate certe cose. Aver predetto qualcosa che sembrava fantascienza e vedere che poi tutto sommato si verifica, un po’ mi dispiace. Chi ci salverà? Ci salverà sicuramente Mini Vip, cioè il ragionamento, l’umorismo, la capacità di vedere con distacco certe cose e riderci sopra, anziché prenderle di petto e farne un dramma; quindi credo sia lui il personaggio che ci può aiutare. L’altro usa la fora e va bene in certe situazioni, ma non in tutte: soprattutto quando si parla di comportamento umano, di situazioni psicologiche, è il cervello che ci aiuta, la testa e non il muscolo.

Uno dei suoi lavori più apprezzati dalla critica – arrivato alla nomination agli Oscar – è Cavallette. Ha mai pensato di farne un seguito, magari raccontando gli ultimi decenni?
No, i sequel mi danno un po’ fastidio: li considero film di seconda categoria. Sono stato obbligato a fare dei sequel perché quando qualcosa ha successo – Europa Italia ne ha avuto tantissimo – mi chiedono poi di fare qualcosa di simile. Parlando però di Cavallette: ho fatto un altro film sulla guerra, che non era un sequel – Rapsodeus, una vecchia idea che avevo e non volevo perdere, realizzata da mio figlio Fabio e da Diego Zucchi -, bensì la storia di una luce che affascina l’umanità e, nel cercare di seguirla, gli uomini si sterminano a vicenda; non era proprio come Cavallette, ma parlava comunque della guerra: qui ci sono altri riferimenti storici che appaiono nel film, ma non sono visti come gag, bensì come momenti della Storia. Ma fare un sequel, no, non mi piace per scelta mia. Mi piace avere sempre idee nuove: se non c’è un’idea nuova che mi attira e entusiasma, difficilmente mi metto a fare un film.
In Cavallette, come in altri suoi lavori, uno degli elementi stilistici più “commoventi” del suo modo di raccontare è quest’idea di far percepire il passare del tempo attraverso le possibilità che dà l’animazione. Penso a Vita in scatola: questa possibilità di raccontare il tempo che nessun altro mezzo si può permettere.
L’animazione è un mezzo straordinario, e qui potremmo anche parlare dell’educazione, del film divulgativo – tipo quelli che ho fatto con Piero Angela, che sono per me importanti -, ma soprattutto ha la possibilità di stravolgere completamente il tempo, l’ambientazione, l’evoluzione delle cose, perché si possono stilizzare e simbolizzare nella maniera più estrema. Questa è proprio una delle cose che mi ha affascinato di più utilizzando l’animazione, queste possibilità che mi offre. Credo di averle utilizzate in molti film: La vita in scatola, Cavallette, Baby Story – film dove vedo tutto quello che succede all’interno del corpo di una donna quando nasce un bambino -; sono cose che non posso certo fare dal vero. In Cavallette faccio passare tutta la storia dell’umanità in sei minuti. In molti film l’ho fatto, perché è bello; un’altra cosa che mi piace molto è la possibilità di avere punti di vista diversi: a me affascinano sempre i campi lunghi; il campo lungo è un mezzo straordinario per staccarci dalla persona che esaminiamo e per vederla come noi guardiamo un insetto: se io guardo le formiche le vedo ovviamente piccolissime, e vedo solo quello che fanno; se io l’uomo lo guardo da vicino ne vedo giacca, pantaloni, camicia e tanti dettagli del viso, ma se lo guardo da lontano non vedo più nulla, vedo solo una formica. Da lontano, se studio l’Uomo dal punto di vista sociale, vedo quello che ha combinato: le guerre, le distruzioni, le invasioni, le migrazioni, ecc. e riesco ad avere un’idea della civiltà diversa, più interessante, non più legata a dettagli che ci distraggono, ma vedo solo il succo delle cose: se una popolazione invade un’altra città, se la vedo da vicino scopro anche le “motivazioni” – litigi, la ricerca del potere -, ma da lontano no; lo esamino con più distacco, con più crudeltà, e infatti, una delle cose che dico spesso e che sembra quasi normale nei discorsi di oggi, ma trent’anni fa era rivoluzionaria, è che l’Uomo è il “cancro” della Terra, un tumore. Se guardo l’Uomo dalla Luna e vedo questi sette miliardi e mezzo di puntini che brulicano e che piano piano invadono sempre di più i territori, mangiano le foreste, prosciugano i mari o li inquinano, visti da lontano sono dei batteri dannosi, che stanno distruggendo un pianeta. Questo è quello che vedo, che è quindi più interessante, e queste sono possibilità che mi offre solo l’animazione.
Da un punto di vista estetico, lei ha anche l’incredibile capacità di rendere il campo lungo un momento molto lirico, di forte introspezione anche dei personaggi: i momenti in cui capiamo di più del personaggio nei suoi film sono quelli in cui lei lo rappresenta distante dall’osservatore.
Mi fa piacere, perché è quello che ho sempre pensato, quindi, se arriva al pubblico, sono molto contento. Questa è una cosa che inizialmente avevo istintiva, perché ricordo che quando ero piccolissimo – 6, 7 anni – la mia passione era di disegnare, ad esempio, una piscina vista in sezione dove vedevo tutti gli omini che nuotavano, si tuffavano, e questa visione mi affascinava già da bambino. Poi, crescendo, l’ho un po’ più intellettualizzata, rendendola più dipendente a un ragionamento, ma quando lo facevo da piccolo era puramente istintiva. Quando parlo dei punti di vista, che sono molto importanti – quando cambia il punto di vista cambia tutta l’ottica di una situazione – mi ricordo una frase che avevo detto un giorno quando ero a tavola coi miei genitori a Milano e credo che mio padre in quel momento abbia dubitato delle mie capacità mentali, perché ricordo di aver detto «Papà, ma tu hai mai pensato a come ci vede il lampadario?» e lui è rimasto un po’ così; per me era istintivo fare certi ragionamenti e mio padre probabilmente mi percepiva come un essere un po’ strano, ma era invece il punto di partenza per cambiare angolazione e vedere il mondo con altre ottiche. Poi crescendo ho cambiato anche l’ottica temporale: se la stessa cosa la vedessimo all’Età della Pietra o nel Medioevo o nel futuro, questa può cambiare radicalmente e assumere altri significati.
Cosa pensa dell’incredibile emancipazione che l’animazione e il fumetto stanno riuscendo ad ottenere rispetto a quella visione un po’ infantilistica che si è sempre avuta del linguaggio grafico disegnato? Ora assistiamo a prodotti di animazione e graphic novel che entrano sempre più di diritto nel mondo della “cultura per adulti”, non solo per bambini.
Ne sono felicissimo, perché questo tipo di lavoro è sempre stato trattato – forse più il fumetto che il cinema – come qualcosa di dedicato ai bambini. Il cinema ha preceduto il fumetto in quest’evoluzione, però si è anche fermato, dato che in Italia la maggioranza dei film d’animazione vengono prodotti soprattutto per bambini, poiché questa è la richiesta che viene fatta da Rai e televisioni in generale; ma il fumetto, nato come prodotto quasi “per minorati” – stando ai genitori di un tempo – ha dimostrato di essere un’opera d’arte, di poter arrivare a vette incredibili e di poter parlare di problemi psicologici profondissimi con migliaia di risvolti. Mi fa quindi piacere: è un’evoluzione che mi aspetto, però bisogna lasciare anche spazio per le cose semplici. Non credo che questa sia l’unica direzione in cui si debba andare; io sono ancora adesso un difensore delle cose semplici, pulite, umoristiche e non vorrei si andasse troppo nel profondo, nell’arzigogolato, dimenticando anche altre cose altrettanto importanti e difficili: perché – attenzione – fare ridere è molto più difficile che far piangere; quando io stimo i comici e gli umoristi è perché credo che facciano un lavoro molto più duro di un drammaturgo. Sono convinto di poter riuscire a far piangere senza troppi problemi; far ridere è difficile. Comunque sono contento: una bellissima evoluzione, meritata, e sarebbe l’ora che anche in Italia non ci fossero solo una manciata di librerie specializzate, ma fosse come in Francia, dove ce ne sono oltre 140 specializzate solo nelle graphic novel e nei fumetti; in Italia siamo ancora indietro.
Oltre a quello che già ci ha anticipato sul Signor Rossi, ha altri progetti in cantiere?
Io mi considero ormai retired, come dicono gli americani. Sono abbastanza fuori dallo studio, che gestisce mio figlio Andrea con Pietro Pinetti, quindi sono loro che stanno ideando i nuovi prodotti: stanno realizzando una serie di 52 film che si chiama Game Catcher, hanno fatto delle serie di Topo Tip, e ovviamente seguono il mercato, anche perché bisogna vivere, produrre e il mercato chiede soprattutto questo tipo di prodotti. Io li seguo qualche volta, quando vengo “tirato dentro” da clienti particolari che vogliono il mio stile su determinate idee che sono più mie che loro, ma cerco di star fuori. Anche questo progetto sul Signor Rossi lo sto seguendo, ma abbastanza da lontano, lasciando che sia Andrea con lo studio a portare avanti la presentazione, le storie, ecc. Non bisogna dare il pesce al figlio, ma insegnargli a pescare. Sto facendo soprattutto delle vignette, cose umoristiche, per me, per puro divertimento e per puro piacere personale, senza nessun doppio scopo né di guadagno né di consegne, perché mi piace disegnare, inventare, divertirmi mentre lavoro; cerco di mantenere lo spirito del mio lavoro, anche se non è più inserito in un contesto industriale, produttivo, commerciale.
Vorrei solo aggiungere che forse l’unica cosa che un po’ mi disturba è l’esagerazione dei prodotti: mentre ai miei tempi usciva un film all’anno, ed era un avvenimento, oggi il fatto che ne esca quasi uno alla settimana rende in qualche modo più banale il nostro lavoro ed è più un inseguimento a cercare la produzione che a trovare delle idee particolari. Direi che la Pixar è stato lo studio che più di tutti ha rischiato di prendere strade totalmente nuove – a proprio rischio e pericolo – ed è questo che io ammiro in loro: quando hanno fatto Up e come protagonista hanno messo un vecchio, hanno dimostrato di avere del coraggio.
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