
Dov’è il mio corpo? – Alla ricerca di se stessi
Dov’è il mio corpo?, film vincitore dell’ultima edizione del Festival di Annecy, premiato a Cannes alla Semaine de la Critique e ora su Netflix, non fa che confermare il talento di Jérémy Clapin, animatore francese già noto per il successo riscontrato con i suoi precedenti cortometraggi: Une histoire vertébrale (2004), Skhizein (2008), e Palmipédarium (2012). La ricerca di sé all’interno della società, il sentirsi sempre fuori posto e una certa solitudine, sono tematiche che accomunano i cortometragg netflixi del regista e che ricorrono anche in quest’ultima opera.
Clapin si confronta qui per la prima volta con il lungometraggio, adattando per il cinema il romanzo Happy Hand (2006) di Guillaume Laurant. Il film racconta due storie parallele, due ricerche su differenti piani temporali: da una parte una mano viaggia per la città sulle tracce del proprio corpo, dall’altra il giovane Naoufel – proprietario della mano mozzata – è alla ricerca di Gabrielle, dopo essersi innamorato della voce della ragazza al citofono.
Uno dei punti forti del film è il modo inedito attraverso il quale lo spettatore riesce ad entrare in empatia con la mano. La vicinanza con l’arto si sviluppa attraverso i sensi, soprattutto l’udito ed il tatto. L’autore, per mezzo di un elaborato linguaggio sensoriale curato nei minimi dettagli, riesce magistralmente nel difficile compito di trasmettere allo spettatore le emozioni di un personaggio privo di espressioni facciali. Ad esempio, per quanto riguarda il tatto, quando la mano viene assalita da un esercito di formiche, riusciamo a percepire il fastidioso pizzicchio di questi piccoli insetti sulle nostre mani, o ancora, quando cade dalle scale mobili, possiamo avvertire la durezza degli spigoli di metallo.
Un altro senso fondamentale, è l’udito. I suoni ed i rumori della natura, come quelli prodotti dalla mano sono missati in primo piano per trasmettere le sensazioni provate dalla mano e allo stesso tempo contribuire alla costruzione dell’ambiente sonoro che circonda l’arto. La musica di Dan Levy partecipa alla creazione di un’atmosfera dalle tinte malinconiche e fantastiche allo stesso tempo, che si fondono con il sound design ed alimentano l’immedesimazione dello spettatore. Ulteriore elemento che stimola l’empatia dello spettatore, è il punto di vista attraverso il quale ci viene presentata la storia, ovvero quello della mano. L’utilizzo di un inquadratura molto bassa, ci permette di seguire le avventura del personaggio e vivere da vicino le situazioni di pericolo e tensione.
Anche la vista assume una certa importanza, non tanto nella costruzione dell’immedesimazione dello spettatore, ma piuttosto nello sviluppo della storia. Poiché i colori ci permettono di differenziare un passato, dominato dal bianco e nero, da un presente dai colori desaturati, all’interno del quale la nostra attenzione è condotta verso piccoli dettagli dal colore vivo, significativi per lo sviluppo della narrazione. Un esempio: le cuffie di Gabrielle, che permettono a Naoufel di riconoscere la ragazza in mezzo alla folla.
In una società dove i dettagli e l’individualità tendono a scomparire, questo film sembra spingerci a riconsiderare l’importanza di piccoli gesti che vengono magnificati. Attraverso inquadrature strette di una mano che gioca, che suona uno strumento, che porta una sigaretta alla bocca, che taglia del legno, delle azioni apparentemente irrilevanti assumono valore. I movimenti quotidiani di una semplice mano, il riflesso della madre di Naoufel che in automobile si mette il rossetto, sono immagini riportate alla memoria del ragazzo grazie all’ascolto – ancora una volta l’udito è centrale – delle registrazioni su cassetta fatte durante la sua infanzia. Suoni che gli permettono di rivivere ed immaginare degli eventi passati, evadendo da una società dominata dalla frenesia, dove metropolitane che sfrecciano in continuazione e passanti che si mischiano, creano un flusso dal ritmo sostenuto, del quale Naoufel non riesce o non vuole far parte. Non a caso, il protagonista lavora come corriere per “Fast pizza”, ma è sempre in ritardo e sarà proprio la lentezza a creare l’occasione per un primo contatto con Gabrielle. Il regista gioca con il tempo anche nelle parti dove la mano è protagonista, momenti di pura poesia, che grazie ad un ritmo puntellato, dato da continui movimenti e dal cambiamento frequente di inquadrature e prospettive, sollecita piacevolmente e continuamente l’attenzione dello spettatore.
Con questo film Jérémy Clapin sembra andare alla ricerca corporale di una materialità persa, raccontandoci lucidamente la società attuale. Bombardati da una continua ricerca di velocità, di immediatezza, il film ci ricorda quanto sia facile dimenticare l’importanza dei silenzi e dei piccoli gesti. Film sicuramente riuscito non solo per l’attualità della tematica, ma anche per la sua umanità. Un’esperienza sensoriale che lascia il segno grazie alla sua immediatezza. Una storia dall’ambientazione molto realistica, e al tempo stesso carica di fantasia poetica: un arto che salta e corre alla ricerca del suo corpo perduto.
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