
The Store – A un frame dal disumano | Biografilm 2023
Lo «store» che dà il titolo al film di Ami-Ro Sköld è un campo di battaglia. O, più crudelmente, la plancia su cui si svolge un gioco al massacro. A esserne protagonisti e pedine sono i componenti del gruppo di lavoro coordinato da Eleni (Eliza Sica): a lei il compito di comunicare la règle du jeu, proveniente da un manuale – scritto da qualcun altro – che continua a sovrascriversi e ridettare il codice di sopravvivenza in ambito lavorativo. Le regole mutano ostinatamente, inflessibilmente: aumentano i prezzi dei prodotti, come il costo dei salari; diminuiscono i compensi e, per proporzionalità inversa, aumenta il carico di lavoro.
Impossibile individuare un responsabile. Eleni è una semplice emissaria delle direttive impartitegli da un qualche superiore, e i suoi colleghi sono – analogamente – meri esecutori. La differenza è solo di grado, rango, e mai di qualità.

A questo fluido e indistricabile slittamento delle parti, Sköld fa corrispondere nell’opera una struttura priva di centro drammaturgico. Questa mancanza è ravvisabile su almeno due piani. Anzitutto, i personaggi-pedine non rompono mai la tela relazionale di co-protagonismo in cui sono imbrigliati: nessuno emerge, svetta, s’imprime con forza all’attenzione spettatoriale. In secondo luogo, più che un dispiegamento lineare degli eventi The Store è un sensorium disagiante, un coacervo di eventi e situazioni che insieme contribuiscono ad abbozzare un’umbratile atmosfera di tossicità.
Assente, oltre a una teleologica linearità narrativa, anche una precisa topologia degli ambienti. L’assenza di establishing shots e di un’ordinata scansione dei percorsi dei personaggi nello spazio contribuisce a una complessiva sensazione di ottundimento, coadiuvata dalla fotografia (caratterizzata dall’uso di luce naturale e dalla frequente semioscurità) e da movimenti di macchina scomposti, pressoché sempre correttivi e mai di ampio respiro. Sempre chiusi nel miope e provinciale circuito del recadrage, laddove anche quando siamo fuori dal discount, anche quando siamo fuori, ci ritroviamo costretti in una dimensione claustrale. Privati di orizzonte.
Intorno alla butiken, a questo centro nervoso/nevralgico di espletamento del potere, le vite di tutti i personaggi ruotano come pallidi spettri. La quotidianità extra-lavorativa ha sempre un che di languido, sonnolento, post-lavorativo. Jackie (Daysury Valencia): «Non ho lavorato questa settimana, eppure sono al lavoro».
Pericolo
Il rischio mortale, per un film come The Store, è quello di aderire pedissequamente – simbioticamente – a quanto vorrebbe probabilmente rappresentare con distacco e potenza critica. Di diventare nient’altro che l’ennesimo strato di un corpo inscalfibile, senza pervenire ad alcuna decostruzione, desquamazione del tessuto auto-rappresentativo del potere. Pensiamo a un inquietante precedente quale Crepa padrone, tutto va bene (Tout va bien, dir. Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin, 1972), film che esce disumanizzato dal tentativo di rappresentare – con sommo e freddo distacco critico – un processo di disumanizzazione.

Laddove in Godard l’esiziale coincide con il gelo iper-cerebrale dell’autore e della sua cifra stilistica, qui la morte espressiva si annida in un potenziale eccesso di empatia. Seguire le sofferenze di Eleni, Jacki, Aadin (Arbi Alviati) lungo ogni rivolo conduce al naufragio: all’indifferenza nei confronti di un testo che non fa che mimetizzarsi con il mondo che si prefigge di rappresentare e, soprattutto, interpretare.
Antidoto
Una critica sana e attiva deve distanziarsi dal suo bersaglio – per poter prendere la mira, riflettere. Non può permettersi di amalgamarvisi, pena l’unificazione, l’indistinzione a-interpretativa. Sköld sfugge alla dissoluzione del suo approccio critico ricorrendo a un bipolarismo linguistico: il suo film, pur prevalentemente live action, è puntellato da brevi scene o sequenze in stop motion che fungono da antidoto al rischio sopra esposto. Le incursioni animate ci ricordano periodicamente che l’immagine è costruita, artefatta. E dunque decostruibile. L’animazione conduce ciclicamente il film fuori da sé, e lo spettatore fuori dal film. Destando da una fruizione passiva. L’estetica del film nel film esaspera gli elementi grotteschi e putrescenti del lavoro. I volti deformati, in liquefazione; i movimenti meccanici, dettati da un marionettista invisibile: la bruttezza come strumento per disabituare a un malessere che rischia di divenire abitudine.

L’animazione scorre parallela al live action, le dà il cambio senza stravolgimenti o derive oniriche. I personaggi si tramutano in fantocci, modellini deformati di sé stessi. Lo scarto tra i due regimi visuali è minimo; il passaggio da una tecnica all’altra estremamente fluido: in questa moderazione risiede l’intelligenza registica di Ami-Ro Sköld, che evita gratuite eruzioni spettacolari fondate sul mero switch tecnologico. Quello animato e quello recitato sono lo stesso film. Gali si ferisce mortalmente sul lavoro quando è un pupazzo, ma le conseguenze si riverberano immediatamente sulla sua controparte in carne e ossa (Sabrin Jaja). Questa coessenzialità è tanto più inquietante quanto più ci si accorge della sottigliezza del confine: basta un taglio di montaggio a congiungerci col disumano.
Inganno
Solo nella sequenza finale Sköld concede all’animazione di deflagrare nella sua potenza espressiva e immaginativa: tutto si putrefà e rifiorisce, a passo uno, preannunciando un reset generale. Tramite le possibilità destrutturanti dell’immagine di The Store s’intravede la possibilità di spaccare anche quel meccanismo in cui i personaggi sono intrappolati. Il rischio è però di invischiarsi in un meccanismo più subdolo: quello di affidare la liberazione a un sofisma visuale; di vedere nel passaggio emancipatorio da una tecnica a un’altra un estatico salto qualitativo. Senza accorgerci di parlare sempre la stessa lingua.

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