
François Truffaut – Il coraggio di essere sentimentali
Gli eroi son tutti giovani e belli, cantava qualcuno, e François Truffaut, eroe del cinema dei sentimenti nato il 6 febbraio 1932 e morto a soli 52 anni, giovane lo è rimasto per sempre. Sul bello può non esserci unanimità assoluta, ma amato Truffaut lo è stato di certo: sarà forse per quella simpatia particolare che ispirano i registi-attori, oppure per il suo recitare da indimenticabile “uomo-bambino” in Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Spielberg, o anche solo per la grazia gentile che ha infuso in quasi tutti i suoi film.
Certo, la sua morte prematura ha fatto sì che non abbiamo avuto modo di vederlo invecchiare come i suoi maestri: Renoir, Hitchcock o Rossellini, e nemmeno come il suo eterno nemico-amico Jean-Luc Godard, e quindi di sapere cosa ci avrebbe raccontato ancora sull’amore, magari con un’altra avventura di Antoine Doinel dedicata alla terza età. D’altronde, Truffaut ha sfruttato al massimo i suoi anni da regista, avendo sfornato ben 21 lungometraggi dal 1959 al 1983 e descritto, in questi 21 tasselli della sua filmografia, i rapporti tra uomini e donne in così tante sfaccettature che basterebbero per due vite.

Lo sguardo di Truffaut sul mistero delle passioni e degli affetti, e soprattutto sulle sofferenze che generano, si era formato durante un’infanzia e un’adolescenza disastrate, prima dell’incontro salvifico con André Bazin, padrino dei cinefili d’Oltralpe, che lo adottò e lo introdusse al mondo della critica cinematografica.
Criticare senza dimostrare di saper fare di meglio è però troppo facile, ed ecco quindi che Truffaut, un anno dopo il collega Chabrol (Le beau Serge, 1958) e un anno prima di Godard (Fino all’ultimo respiro, 1960), esordisce alla regia con I 400 colpi (1959), gioiello di film che romanza la sua infanzia difficile e, prendendo in prestito la lezione del neorealismo, conia un intero movimento definito da due paroline magiche: Nouvelle Vague.
In realtà lo stesso Truffaut nel corso del tempo si dimostrerà, per natura personale, un rivoluzionario più anomalo di quanto non lo si volesse dipingere: lui stesso dichiarerà di non essere infastidito dall’appellativo di “cineasta borghese”, e a differenza di Godard non si sentirà mai a suo agio con il Sessantotto. D’altronde, come scherzò, «Non avendo ricevuto una vera e propria istruzione, l’idea dell’istruzione e della cultura non poteva dispiacermi, e si ritrova nei miei film. All’epoca in cui gli studenti lasciavano i licei per fare gli hippie, io ho fatto Il ragazzo selvaggio, su un piccolo hippie che vuole entrare al liceo».

La filmografia di Truffaut è tutta presa in mezzo al tiro incrociato di gioventù vitale e malinconia da invecchiamento precoce, tra drammi borghesi e commedie popolari, tra la concitata narrativa pulp e i grandi romanzi ottocenteschi, tra una buffa malinconia e una a volte troppo seriosa attitudine melodrammatica.
Basti vedere i suoi più grandi successi e i suoi più grandi insuccessi: da una parte Jules e Jim (1962), storia di un triangolo amoroso che prende vita in un tripudio di stile, movimenti di macchina inattesi, musiche avvolgenti e un montaggio che sembra Picasso applicato al cinema; o ancora Effetto notte (1973), capolavoro di grazia e leggerezza (quella che Calvino elogiava nelle Lezioni americane) che rovescia la grandiosità di un Fellini (8 ½) per mostrare il lato più umano, ordinario e cameratesco di una troupe che realizza un film. Dall’altra parte, Le due inglesi (1969), tratto dallo stesso romanziere di Jules e Jim e ancora una volta con un ménage à trois al centro, ma stavolta appesantito da un’aria così letteraria e sorpassata che sembra di vedere proprio il cinema borghese contro cui il giovane regista si scagliava.
La peculiarità di Truffaut, tra quelli che sono considerati i Grandi Autori della storia del cinema, è quella di non aver fatto (con l’eccezione probabile del solo Jules e Jim), nessun “grande” film, nel senso classico di ambizioso, magniloquente, grandioso, o anche solo sperimentale. Per i detrattori, Truffaut potrebbe essere il cineasta della medietà; per gli ammiratori, il cantore del coraggio di essere sentimentali, in grado come pochi di trasporre sullo schermo gli imbarazzi di un innamorato, la malizia di un bambino, la malinconia per un lutto, l’amore per il proprio lavoro.
D’altronde, quando gli fu chiesto se per lui l’amore fosse un tema importante, rispose: «Sì. È il soggetto dei soggetti. Merita che gli si consacri metà di una carriera (come Bergman) o tre quarti (come Renoir)». E ancora, con acume da critico, osservò che a differenza degli americani, gli europei «non fanno film su 5mila buoi che vanno guidati nella prateria. E allora che faccio? Porto i sentimenti agli estremi invece delle imprese».

Ecco così la passione adultera ed egoista de La signora della porta accanto (1981); la follia ancora più estrema di Adele H. – Una storia d’amore (1975), su una donna incapace di convincersi che il proprio amore non sia ricambiato; la vendetta proto-Kill Bill della vedova inconsolabile de La sposa in nero (1967); il dongiovannismo ossessivo del protagonista de L’uomo che amava le donne (1977), racconto autobiografico di un Casanova che con poco successo cerca la felicità nella quantità.
Nella schizofrenia di Truffaut però c’è posto, senza soluzione di continuità, anche per film completamente opposti: la farsa volgarotta di Mica scema la ragazza! (1972); la delicata foto di classe collettiva de Gli anni in tasca (1976), dichiarazione d’amore agli studenti e agli insegnanti; la fantascienza poco spettacolare di Fahrenheit 451 (1966); il noir postmoderno di Finalmente domenica! (1983) con Fanny Ardant che sembra Ingrid Bergman in impermeabile; e ovviamente il ciclo che segue le avventure di Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) dai 13 ai 34 anni, e che crea un immaginario ricco di eccentricità e piccole buffe follie che ha insegnato molto a Wes Anderson.
Onnivoro consumatore di cinema e letteratura, cinefilo e bibliofilo nel senso stretto di fruitore senza pregiudizi, Truffaut in 24 anni si è immerso nella celluloide provando ogni genere, convinto che a essere frustrante non fosse «il cinema, ma il resto della vita». Se al cinema spesso si va per vivere vite incredibilmente diverse dalla nostra, Truffaut, scegliendo di non spingere sul pedale dello straordinario, ci ha dato uno specchio sulla nostra normalità, a volte gioiosa e a volte tragica, e per il coraggio di mostrarcela senza imbarazzi meriterà sempre un affetto particolare.
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