
Robin Hood – La resilienza di una major senza bussola | Disney+ Revisited
Con il rilascio di Disney+ e la messa a disposizione di tutti gli abbonati di un vastissimo catalogo di prodotti marchiati Disney, i Classici d’animazione senza tempo che hanno accompagnato diverse generazioni di spettatori si trovano ora immersi nell’eterno presente delle piattaforme digitali. Con Disney+ Revisited analizziamo che effetto fanno oggi questi film, a cui viene restituita una nuova vita commerciale.
Gli anni Settanta rappresentano senza ombra di dubbio uno dei periodi più complessi per gli studi d’animazione Disney: rimasti orfani del loro padre fondatore, questi ultimi fanno fatica a trovare un gusto condiviso con il pubblico tanto che, per ragioni tanto economiche quanto ideative, il pantheon dei personaggi disneyani di quegli anni si configura standardizzato e reiterato in sé stesso. In questa decade di totale spaesamento però, il ventunesimo classico Disney conferma e in parte reindirizza una così onesta e perentoria sentenza. Analizzare dunque Robin Hood diventa occasione di scorgere in controluce la resilienza di una major, la Disney, rimasta senza bussola.

Ciò che immediatamente cattura l’attenzione dello spettatore è il ritorno di animali concepiti come antropomorfi. Ben distanti dalla stagione del naturalismo faunistico inaugurato con Bambi, Robin Hood si riallinea ai precedenti Mickey Mouse e Donald Duck; pur mantenendo una distanza siderale dal grado divistico delle due creature disneyane per eccellenza, i personaggi di Nottingham mescolano i sentimenti umani con il corpo animale, fedeli alla lezione favolistica esopiana. Ecco dunque che lo scaltro protagonista viene identificato come una volpe, mentre il chicchirichì del gallo diventa il canto delle gesta dell’eroe, e così via.

Oltre alla piena corrispondenza tra carattere e forma, la scelta di “animalizzare” Robin Hood cela un motivo prettamente filologico. I registi infatti scelgono di rappresentare il Medioevo strizzando l’occhio a uno dei topos letterali del XII e XIII secolo, Le roman de Renart, raccolta di favole satiriche da cui emerge la figura di Renart, volpe ingannatrice diventata simbolo del folclore europeo. A conferma di un interesse filologico presente sin dagli albori, troviamo i disegni dell’incompiuto Chanticleer and the Fox, fiaba medievale che Walt Disney stesso voleva portare sul grande schermo ai tempi di Biancaneve e i sette nani: è proprio questo progetto rimasto nel cassetto la base del film.

Perseguono il risparmio anche trama e scene: il piccolo budget assegnato alla produzione della pellicola infatti non permette di portare a compimento il finale previsto dagli storyboard originali – un Robin Hood ferito dalla fuga dal palazzo sta per essere pugnalato dal principe Giovanni, ma quest’ultimo viene fermato dall’arrivo del fratello Riccardo – ma vengono affidate all’ellissi temporale il rientro del legittimo re di Nottingham e il momento in cui viene impartita la punizione all’antagonista della storia.

Per quanto concerne invece il risparmio nelle scene, un occhio attento può notare la presenza di scene ricalcate sui disegni dei precedenti classici. Gli esempi più noti sono la lunga sequenza del ballo nel bosco, nella quale si intervallano riprese da Il libro della giungla e Biancaneve e i sette nani, o l’epilogo del film, dove il lieto fine di Robin Hood e Lady Marian nasconde il matrimonio di Cenerentola e del suo principe.

Nonostante l’ancorarsi alla confort zone creata negli anni, col suo ventunesimo classico d’animazione la major Disney propone un esempio visivo di globalizzazione, fenomeno che in quegli anni stava iniziando a farsi strada. La medievaleggiante Nottingham si batte infatti in favore di un cosmopolitismo assoluto, dove l’armonia tra i suoi abitanti è capace di contrastare e sconfiggere qualsiasi angheria. Prima di Zootropolis (Zootropolis, 2016), è il reame di Robin Hood a fare i conti con l’imparare ad essere regno, rispettando e valorizzando le diversità dei suoi abitanti. Oltre a prede e predatori, anche atmosfere e usanze trovano un perfetto equilibrio: senza rinunciare del tutto alle eteree atmosfere dei regni incantati di Biancaneve e de La bella addormentata nel bosco, nell’universo di Robin Hood spicca una concreta aderenza alla quotidianità umana, fatta di sport (dal badminton ai riferimenti al football americano di Lady Cocca), lavoratori indaffarati e purtroppo anche soprusi e povertà.

Proprio opponendosi alle vessazioni del principe Giovanni, la figura ribelle e restauratrice di Robin Hood assume i connotati di un carattere filantropico, in quanto non è chiusura – rubare per sé – ma apertura, dialogo e aiuto verso i bisogni. Proprio il monito dell’aiutarsi reciprocamente diventa inevitabilmente motore e lieto fine di una storia personale tanto quanto comunitaria.

Perseguendo dunque un intento politico più apertamente del solito, la pellicola Disney dedicata a Robin Hood non è solo resilienza di una major, ma diventa emblema di un nuovo vivere facendo attenzione al bene comune. E se il seme piantato deve aspettare la coniglietta Judy per germogliare i frutti più preziosi sul grande schermo, la plausibile direzione indicata dalla volpe che ruba ai ricchi per sfamare i poveri diventa forse un po’ precocemente stella polare di uno spirito del tempo, ma che oggi può essere letto come avanguardia e scommessa degli anni bui della major.

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