
Get Back – Otto ore. Otto anni. Una vita
“And in the end/the love you take/is equal to the love you make.”
Beatles – The End – Abbey Road – 1969
Ogni favola che si rispetti (perché di favola vera stiamo parlando, ma intrisa di quel sapore dickensiano che mischia disperazione e redenzione e impasta grandi speranze con il brusco risveglio alla realtà) comincia con un C’era una volta. Giusto? E si conclude talvolta con un finale pacificatorio che raddrizza i torti e chiude il cerchio. (Qui il finale è per certi versi amaro, inevitabile certo, ma anche meno drammatico di quello che si pensava e immaginava). C’erano dunque una volta un gruppetto di giovani inglesi dediti al sacro verbo del Rock’n’Roll nella seconda metà dei favolosi Fifties. Nel giro di un quinquennio i nostri conquistavano il mondo unendo innovazione a rivoluzione, gusto popolare a sofisticata ricerca sonora.
Giunti all’anno di grazia 1968 i Beatles, questo il nome dei (quattro) ragazzi, avevano raggiunto tutto quello che umanamente era raggiungibile sia dal punto artistico che commerciale. I Settanta stavano per bussare alla porta, ben anticipati da una canzone come Gimme Shelter dei Rolling Stones. I sogni di utopia e la ricerca di nuove forme espressive avevano ceduto il posto a cinismo, paura e violenza. Troviamo i nostri all’alba del 1969, con poche idee e confuse su dove dirigere la propria ispirazione (compositivamente all’apogeo). Quello che era un gruppo, ora sono tre solisti eccezionali ma divisi, ognuno con le proprie idee musicali, sogni, passioni.
L’idea che si palesa nella mente di Paul McCartney per superare l’impasse è quella di un back to the basics, un ritorno alle origini del Rock’n’Roll. Un po’ per dimostrare che loro no, non sono diventati topi da studio, un po’ perché si spera che questa scelta ricompatti il gruppo, riportando l’entusiasmo degli inizi. L’intenzione originale è di registrare e filmare il gruppo mentre prova e registra nuove canzoni, vecchi pezzi Rock’n’roll e dulcis in fundo uno spettacolo dal vivo. Che restituisca i Beatles, da tre anni assenti dalle scene, al pubblico. Disco, film e show live. Detto e fatto? Non proprio.
Il progetto (in particolare il film e il disco) si arena tra discussioni, incomprensioni e scarso interesse e a parte l’improvvisato rooftop concert e una manciata di pezzi, non vedrà la luce che l’anno dopo. Quando l’esperienza umana e artistica del gruppo si è già conclusa. Il disco, incompleto, raffazzonato si muove tra capolavori senza tempo come Let It Be, vecchi “scarti” del White Album, reincisioni di primi pezzi, gorgheggi orchestrali che rimandano più a Sinatra che agli Scarafaggi. Il film si rivela un sostanziale fallimento, consegnato a partire dagli anni ottanta all’oscurità. Tutto questo sino a qualche anno fa. Peter Jackson riprende in mano sessanta ore di girato e un centinaio di ore di registrazioni audio e compie un mezzo miracolo.

Negli ultimi mesi si è speso tanto inchiostro, virtuale e non, sul risultato. Se i commenti risultano per la gran parte positivi, fa eccezione qualche voce dal coro che ha avuto il coraggio, ma anche una bella faccia da schiaffi, per mettere in discussione il valore morale (senza mai pronunciare la parola) ed etico dell’operazione. Soprattutto perché il nostro, non si fa remore (con l’appoggio del gruppo o meglio chi è rimasto) di mostrare proprio tutto (o quasi).
È corretto, dato l’assenza di Harrison e Lennon, passati a miglior vita, mostrarli così, in piena luce e senza particolari filtri? Considerando che i Beatles, oltre che una favola meravigliosa, sono un pezzo importantissimo della cultura popolare del secondo Novecento e che tanta influenza hanno avuto sulla vita di milioni di persone, la mia risposta è affermativa e senza alcuna riserva. Essere presenti sulla scena del delitto, nel momento supremo della creazione è un occasione unica e irripetibile. E se a ciò aggiungiamo che il risultato, nonostante il girato sia di più di 50 anni fa, sembra perfettamente in linea, sia per formato sia per contenuto con gli standard odierni, non c’è davvero di che disquisire.
Presentato come film di due ore, si è trasformato presto in un documentario monstre di tre episodi per un totale di otto ore (perfetto coronamento dei quasi otto anni di attività discografica del gruppo) disponibile da fine novembre su Disney Plus.
La prima parte del documentario resta la migliore. Tra prove, divisioni e riconciliazioni; tentando di trovare una quadra a un progetto fumoso e tutto in divenire. Con il buon Paul, novello Orson Welles a dirigere, dettare, fremere perché l’ambizioso progetto del disco, film e concerto veda la luce. Lennon e Ono insopportabili ed evanescenti, quasi due fantasmi che entrano ed escono dalla scena con sublime nonchalance. Il povero George costretto a stringere i denti in un angolo (l’episodio si chiude con il cliffhanger del suo momentaneo abbandono).
Ma è Paul il centro dell’episodio. Crea Get Back in una manciata di minuti, strimpellando sul suo vecchio Hofner e cavando fuori dal nulla, come un pittore da una tela bianca, quello che di li a breve sarà il nuovo singolo del quartetto. Come tutti i veri geni bulimico, iperproduttivo, un fiume in piena.

Scrive, compone, improvvisa anche mentre si sbaraccano gli studi, dopo che il Magical Mystery Tour si trasferisce a Saville Road, sede della Apple. L’atmosfera si rilassa e gli spigoli vengono smussati (nel secondo episodio) . Si prova e si riprova, si crea grande musica (molta confluita in Abbey Road e nei lavori solisti). Tra sublime cazzeggio e schegge di eterno (Something).
Perché i Beatles sin dai vertiginosi giorni di Amburgo sono sempre stati questi; un circo colorato, guappi geniali capaci di trasmutare come dei novelli Re Mida il piombo in oro. Suonavano di tutto: Rock’n’roll, ballate, jingles, musical. Pythoniani sino al midollo, con quella leggerezza tipica solo dei grandi e che anche negli istanti finali hanno saputo conservare.
Splendida anche l’ultima parte, i dubbi, la sensazione di disastro e le incertezze che vengono superati solo all’ultimo coronando il tutto con il concerto sul tetto dello studio. Verso la fine si allunga anche l’ombra malefica del manager Allen Klein, uno dei tanti artefici della fine dei Beatles.
Il risultato finale come dicevamo è eccellente. Jackson lavora da vero regista, anche con immagini e materiali non propri. Crea il suo meraviglioso arlecchino di celluloide, cinquanta anni dopo, restituendo intatto il Mito. In un un technicolor finalmente splendente, con cui lucidarsi occhi, cuori e orecchie. Uno degli eventi dell’anno appena passato. In una parola, imperdibile. Goo goo joob!
“And if I say/ I really knew you well/ What would your answer be?
If you were here today /Well knowing you/ You’d probably laugh/ And say that we were worlds apart
But as for me/ I still remember how it was before/ And I am holding back the tears no more”Paul McCartney – Here Today
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