
Una vera tragedia: falso mito cubista
Vorrei evitare in tutti i modi di polarizzarmi in quel campo che non conosce mediazione tra formalismo e moralismo, tra esigenze estetiche ed esigenze romantiche.
R. Favaro, Scrivere contemporaneo
Così Riccardo Favaro, autore e regista insieme ad Alessandro Bandini di Una vera tragedia (Premio Scenario 2019), cerca di circoscrivere nel testo Scrivere contemporaneo alcune linee guida del proprio lavoro drammaturgico.
Partire da una dichiarazione così netta può aiutare ad entrare più velocemente nell’universo di Favaro/Bandini, i quali esordiscono come duo in grande stile attraverso un’opera affascinante e deflagrante, seguita nella sua evoluzione già dal Premio Scenario fino al cartellone del LAC Lugano Arte e Cultura la scorsa settimana.

Apparentemente inutile sciorinare trama, scene, luci, suoni, costumi e attori, poiché attraverso un movimento centrifugo riverso il cuore dello spettacolo è sempre altrove, e pur sempre davanti allo spettatore: immersi improvvisamente nell’occhio di un ciclone che vede il roteare delle forme drammaturgiche (si badi, più o meno tradizionali che sembrino, non è questo il punto), si assiste ad un turbinio circostante e continuo di elementi, disordinato ma proprio per questo coerente.
La corsa attraverso gli opposti alla ricerca di un equilibrio reale a livello drammaturgico porta così a un risultato talmente tanto formale e morale, mosso proprio da esigenze tanto estetiche quanto romantiche, da nascondere egregiamente i poli del discorso per lasciare spazio alla scena in tutta la sua purezza avanguardistica. È già possibile isolare il primo punto focale dello spettacolo: Una vera tragedia è uno spettacolo drammaturgicamente neocubista.
La storia rappresentata poi parla di generazioni e non detti, di silenzi rivelatori e gesti falsati, di abiti kitsch e di dimenticanze volontarie, mischiando indissolubilmente il mito al contemporaneo. Del resto già dal titolo lo si voleva preannunciare, di tragedia si tratterà: partendo dal certo si vuole però scandagliare alle viscere l’incerto, in un lavoro che è già stato definito lynchano e che porta con sé una cosmogonia nascosta (che, in futuro, ci si augura continui a fertilizzare così alacremente il lavoro dei due) delle relazioni e, quindi, del fare teatro in generale.
Attraverso l’allestimento più recente, che è possibile definire senza falsa retorica tematicamente molto più edipico del precedente (e siamo al secondo punto focale dell’opera), quella che viene rappresentata è la rappresentazione in quanto tale, sia nelle forme (e lo si è detto sopra) che nei contenuti, attraverso una tragedia che espone se stessa e scandaglia la propria natura (o attualizzazione, se si vuole) proprio con un atteggiamento edipico ambiguo nei confronti della storia del teatro, e proprio per questo felicemente integralista.

Da spettatore, però, attraverso quale tramite si scivola nel contemporaneo così inconsapevolmente e semplicemente nel lavoro di Favaro/Bandini? È qui che entra nell’analisi il terzo e (per il momento) ultimo nodo della riflessione: Una vera tragedia è uno spettacolo esteticamente realitico.
Quello che sulle prime appare come un dramma borghese da accademia piuttosto forzoso non impiega molto a rivelarsi poi per quel che è, attraverso un collante tra le forme e i contenuti fortemente riconducibile al filone del realitismo: schermi-gobbi, applausi da sit-com, luci strobo, impostazione recitativa, ancora costumi, trucco e parrucco pesante, sangue in scena, tutto fa pensare alla volontà di sovraesporre un’estetica mediale e forse anche televisiva che si pone (come gli altri elementi evidenziati fin qui del resto) sul crinale, in questo stretto caso su quello degli schermi che ci vivono addosso e tutt’intorno. E una simile intenzione estetica non può stupire, se si pensa al Bandini-Junior de La tragedia del Vendicatore di Declan Donnellan, dove quest’ultimo effettuava con questa stessa estetica e con queste stesse volontà un percorso per certi versi palesemente ispiratore di quello di Una vera tragedia. È così che anche il cerchio sul titolo si chiude: una tragedia vera, più o meno quanto quelle a cui assistiamo ogni giorno sui tanti schermi che ce le sottopongono. Talmente tanto vera da essere esteticamente e ontologicamente falsa alla radice. E cos’è in fondo il Teatro, se non questo?
Creare, riempire una forma per poi rinunciarvi, trasformarla in altro, ripensare i materiali: la natura contemporanea della scrittura teatrale si manifesta così non come pura ricerca formale o pura aspirazione umanista, ma come uno sforzo indissolubilmente connesso alla scena, intendendo la scena come il luogo della morte per eccellenza. Se si scrive anche per essere dimenticati, oggi, non ci si può più permettere di ambire ad un respiro ulteriore, magari letterario. La missione deve essere più grande, più importante, più spaventosa: trovare le parole giuste da mandare in frantumi, trovare le parole migliori per permettere al teatro di preservare la propria continua trasformazione.
Ibid.
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