
Una Vera Tragedia – Intervista ad Alessandro Bandini
Una famiglia qualunque, una tragedia “vera” nel suo essere tristemente annunciata e al tempo stesso assurda. Si muovono riuscendo a mantenere un equilibrio delicato e ribaltando continuamente le prospettive Riccardo Favaro e Alessandro Bandini nel loro primo lavoro, Una Vera Tragedia, già vincitore del Premio Scenario 2019, che ha debuttato a conclusione del FIT Festival di Lugano.
Un interno borghese, una cena importante che non inizia perché manca ancora qualcuno. Pare un inizio banale, ma all’arrivo di un figlio che si rivela essere un altro ragazzo tutto viene messo in discussione. Un furto d’identità, un omicidio, la ferocità del linguaggio familiare, così indiscutibile e consolidato di generazione in generazione da assumere vita propria. Questi sono solo alcuni degli elementi di Una Vera Tragedia scritta da Riccardo Favaro. Alla vigilia del debutto abbiamo intervistato Alessandro Bandini che insieme all’autore ha ideato il progetto e curato la regia di Una Vera Tragedia. Ecco cosa ci ha raccontato.

Definito dalla giuria del Premio Scenario «un’originale sperimentazione del dispositivo drammaturgico in cui il testo incombe sulla scena» Una Vera Tragedia è al tempo stesso testo inedito e messa in scena originale. Com’è nato questo spettacolo e perché questo titolo che evoca il mondo del teatro, del dramma, dello spettacolo (e della spettacolarizzazione) nelle sue accezioni più sfaccettate?
Quasi non ci conoscevamo. Era il luglio 2018, eravamo nella cucina di una casa in affitto a Verona per le prove di un altro spettacolo e una notte Riccardo mi ha chiesto di leggere con lui il testo che aveva da poco terminato. Si chiamava Buchi Bianchi. Mentre le parole e le pagine scorrevano, quello che ricordo, come se fosse adesso, è il forte spaesamento colto negli occhi di entrambi: personalmente mi verrebbe da dire come un senso di meraviglia, un turbamento di chi scopre di aver improvvisamente incontrato una persona che sembra comprendere e condividere il tuo sguardo sulle relazioni umane, soprattutto le più elementari e violente come quelle familiari. Un riconoscimento.
Quella notte non ne abbiamo parlato molto. Nei mesi dopo però questo smarrimento mi è rimasto addosso e ha reso ardente in me il desiderio di tentare di dare corpo a uno spettacolo che desse voce all’inquietudine condivisa in quella cucina. Buona parte delle parole di Buchi Bianchi ormai si è trasformata e il lavoro porta oggi il nome di Una Vera Tragedia.

Ho scelto questo titolo perché secondo me cerca ironicamente di accostare un sostantivo complesso, che teatralmente porta con sé un immaginario storico millenario, a un aggettivo che è ormai oggi del tutto abusato, oserei dire quasi un aggettivo televisivo, pubblicitario.
Lo spettacolo tenta ironicamente di giocare con la compresenza di realtà e finzione già nel suo stesso titolo, racchiudendo in tre parole quello che poi promette di esplorare, ovvero il rapporto tra il reale e la sua simulazione, tra l’enunciazione di una verità e il processo che lentamente porta non solo ad sua negazione, ma anche a una coesistenza con la rappresentazione.
In un momento storico straordinario in cui – a chi, come noi, si affaccia al mondo del lavoro – viene implicitamente fatto capire che conviene essere prudenti, meglio ancora se diffidenti, e che è necessario giocare al ribasso per non essere scartati, la vostra compagnia sembra una (felice) eccezione. Nel vostro lavoro si percepisce una componente di precarietà vitale, un desiderio di mettere in discussione tutte le certezze senza accontentarsi di risposte facili. Perché ritenete importante correre dei rischi, esplorare i margini, sbirciare oltre i limiti? La vostra può essere una scelta coraggiosa e vincente, ma anche l’anticamera del fallimento, dell’errore. Che ruolo gioca questa componente potenziale?
Penso di avere al mio fianco delle persone che trovano la loro ragione di essere artisti proprio in questa precarietà vitale di cui mi domandi. Nel momento stesso in cui si sceglie quale strada intraprendere insieme, credo sia già contemplata l’idea del fallimento. Più volte ci siamo trovati a domandarci il perché di tutto questo viaggio, e anche di tanta fatica, e la risposta è perché ci fa stare bene. Correre dei rischi mi fa sentire vivo; portare gli attori, che prima di tutto sono amici, a certi traguardi artistici e personali e, allo stesso tempo, cadere con loro in crisi mi dà una gioia che non saprei descriverti. Non penso che noi siamo un’eccezione, conosco tante compagnie e tanti giovani artisti che provano a nuotare sempre più in alto per non annegare in questo mare indifferenziato e mediocre che ci circonda.

L’idea è proprio quella di sbirciare, hai ragione: ogni volta che ho letto e rileggo il testo di Riccardo io annuso sempre delle possibilità nuove ed inesplorate che mi consentono di ragionare e creare su qualcosa di complesso. È lo spazio misterioso che c’è tra le sue parole il luogo dove io posso indagare: è quello il terreno a me riservato e dedicato dove poter scolpire le mie impressioni riguardo l’ineluttabile violenza dei rapporti familiari. Quello che personalmente mi spinge a mettermi in discussione, almeno è questo che sto cercando all’inizio del mio percorso, è il desiderio di portare il pubblico in delle zone a lui scomode: intendo dei luoghi rimossi, quegli istinti ed aneliti interiori che rimuoviamo perché ci dà le vertigini guardarli, quelle voragini di cui proviamo vergogna, quegli spettri che cancelliamo per sopravvivenza. Sono zone d’ombra che non ti nego non mi fanno dormire la notte: io non so se le nostre siano scelte coraggiose o destinate al fallimento, ma so che è questo rischio che mi fa scappare dalle risposte facili, che mi mette in dialogo con le cose più nascoste della mia anima e allo stesso tempo da queste mi protegge.
In un mondo dello spettacolo spesso attento solo alle logiche di produttività che sembrano proiettare un “mercato” già saturo di proposte artistiche alla moda, come trovate il tempo per la gestazione di uno spettacolo che implica il tentativo, la prova, l’errore e il mutamento? Il vostro spettacolo com’è cambiato in questo anno?
Quante parole significative in un’unica domanda! Tempo, tentativo, errore, cambiamento…
Una Vera Tragedia è cambiato radicalmente e più volte nei suoi due anni di gestazione; pensa solo che nei primi venti minuti presentati a Scenario come scenografia avevamo un tappeto di erba finta con un cimitero di oggetti per terra! A parte queste piccole cose, è indubbio che sia il testo a essere stato messo più profondamente in discussione. Lo spettacolo è mutato di conseguenza.
Il discorso sulla drammaturgia e sulle sue continue deviazioni si lega in modo intrinseco a quello sul tentativo. Io sono profondamente convinto che Una Vera Tragedia sia fieramente figlia dei suoi errori. Mi spiego meglio: la paura di sbagliare è molta. O almeno penso sia riscontrabile nella maggior parte degli artisti della mia età che io conosco. Non credo però che sia un fattore generazionale, penso sia qualcosa di comune a chiunque ha tentato e tenti di fare arte. Ma sarei bugiardo a negare che ciò che percepisco sempre più forte è la paralisi creativa che il terrore di rischiare fino in fondo crea nei giovani artisti, terrore che porta loro ad essere intimoriti ed assopiti.

Io e Riccardo siamo stati fortunati perché questa paura non ci ha (quasi) mai tarpato le ali. Ed è proprio per questo che penso che sia importante nominare chi ci ha sostenuto, sia artisticamente sia praticamente: questo non per fare ringraziamenti formali, ma perché è giusto che si sappia quali sono state, nel nostro percorso, le realtà che ci hanno concesso di sbagliare, di tentare, che ci hanno permesso di scontrarci con gli errori che qualcun altro etichetterebbe come “imperdonabili”. Ci hanno spronato a 25 anni a non dover scendere a compromessi, hanno creduto nelle nostre intuizioni, nella nostra ricerca e anzi hanno colto in quelle nostre fragilità un personale punto di forza. Ci hanno dato respiro e ci hanno trasmesso il gioioso pericolo di non confezionare o impacchettare un prodotto che miri alle logiche da mercato, anzi ci hanno indirizzato verso un percorso di complessità: in primis Associazione Scenario, grazie al quale Una Vera Tragedia ha trovato luce, il LAC di Lugano e Carmelo Rifici, insieme a Teatro i, che hanno preso sulle spalle la grande responsabilità di traghettarci e dare vita completa al lavoro, e non per ultime le due bellissime esperienze di residenza all’Arboreto di Mondaino e ad Industria Scenica di Vimodrone.
Sono davvero orgoglioso che Una Vera Tragedia abbia avuto bisogno di tempo per approdare a una sua identità artistica, è un regalo speciale e unico che ci è stato dato e a cui sono convinto abbiamo reso onore: azzardo a dire che sarebbe il punto di svolta per il panorama teatrale e per tutti noi artisti avere al proprio fianco realtà che contemplino il margine di errore.

Una Vera Tragedia sperimenta la coesistenza di più linguaggi e più supporti. Come avete lavorato per integrare più forme narrative ed espressive?
Durante le prove mi sono sempre sentito molto libero di sperimentare diverse strade e di farmi aiutare e supportare da diversi strumenti (sonori, video, coreografici). Per me però a dettare le regole è sempre la scena: cerco di fare ogni volta un passo indietro, di osservare e ragionare su ciò che in quel momento lo spettacolo chiede e necessita. Sono estremamente affascinato dalla contaminazione tra le arti in teatro e allo stesso tempo non ti nego che mi diverte molto osare e liberamente mettere in dialogo diversi linguaggi; ad esempio la parola gestita dagli attori e la parola che inesorabilmente continua a scorrere sullo schermo alle loro spalle.

Il lavoro sul corpo poi per me è di fondamentale importanza: in Una Vera Tragedia è circoscritto ad alcuni momenti di slow motion, i quali però hanno il compito fondamentale e sostanziale di traghettare lo spettatore in un altro luogo, in un’altra dimensione. Nell’ouverture per esempio, proprio grazie al lavoro fisico, mi sono divertito a nascondere la chiave di lettura di tutto lo spettacolo: niente è come sembra, ogni cosa può sembrare improvvisamente il proprio opposto senza che tu te ne renda conto.
«Thriller torbido e feroce», «gioco al massacro», «una drammaturgia classica che si mescola abilmente con la serie televisiva, con la letteratura contemporanea»… Una Vera Tragedia è stato descritto in molti modi. Tu come lo definiresti?
È l’urlo imploso di un Figlio che tenta disperatamente di parlare ai propri genitori per l’ultima volta.

Tra gli aggettivi riferiti a Una Vera Tragedia compare spesso “lynchiano”, Birdmen Magazine si occupa parallelamente di Cinema, Serialità e Teatro e Lynch è indubbiamente uno dei registi a cui abbiamo dedicato più attenzione negli ultimi anni. Voi che rapporto avete con il cinema? Ci sono autori cinematografici che più vi appassionano o vi ispirano? Ti piacerebbe lavorare anche in questo ambito?
Sarò molto sincero perché ci tengo a questa domanda: confesso che negli anni la mia attenzione al cinema non è mai stata fine ed accurata, anzi purtroppo era piuttosto saltuaria. Conoscevo poco il panorama internazionale e dei grandi cineasti avevo visto solo i masterpieces. Poi un carissimo amico che voi di Birdmen conoscete bene mi ha gentilmente fatto notare la mia ignoranza e a quel punto gli ho chiesto di stilare una lista di tutti i film e i registi fondamentali così da formarmi una cultura cinematografica più profonda. Quindi in pochi mesi mi sono ritrovato a viaggiare tra Haneke e Vinterberg, tra Kubrick e Polanski, tra Sussurri e Grida e Vertigo, tra C’eravamo tanto amati e Il Conformista e sono entusiasta nel dire che molti dei film che ho visto fino ad ora sono stati una scoperta vibrante e indelebile: ancora oggi di fronte a certe opere d’arte mi sento quasi come un bambino emozionato e insaziabilmente curioso. Tutto questo ha cambiato il mio rapporto con l’arte, non solo perché il mio immaginario è cresciuto in modo esponenziale, ma soprattutto perché certi lungometraggi hanno arricchito la mia anima come uomo.
Per quanto riguarda Una Vera Tragedia l’aggettivo lynchiano ci è stato attribuito dalla giuria del Premio Scenario nella motivazione della vittoria e devo dire che solo in quel momento ci siamo resi conto quanto le atmosfere torbide e i labirinti temporali di Lynch ci avessero inconsapevolmente ispirato e guidato in fase di creazione. Altri due film fra tutti che sicuramente sono stati per me significativi e che sono diventati materiale di condivisione con gli attori sono Martha di Fassbinder e Rosemary’s Baby di Polanski.
Noi non possiamo che augurare il meglio a Riccardo Favaro e Alessandro Bandini e consigliarvi Una Vera Tragedia, presto in scena al Festival delle Colline Torinesi.
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