
Show, don’t tell #2 – La riscrittura: Pino Carbone e le esigenze emotive
Show, don’t tell è una rubrica sulla drammaturgia contemporanea che si articola in quattro sezioni: 1-personaggi: drammaturgia che ha il suo cuore nella caratterizzazione dei protagonisti; 2-riscrittura: drammaturgia basata sulla rielaborazione di testi già esistenti; 3-trama: drammaturgia incentrata sulla concatenazione di eventi; 4-linguaggio: drammaturgia costruita su canali comunicativi eccentrici, anche non verbali.
Il secondo appuntamento è dedicato a Pino Carbone, regista e drammaturgo che alla Biennale di Venezia 2019 ha proposto un teatro che racconta i conflitti del nostro tempo per mezzo di storie che appartengono al passato.

Riscrittura, rielaborazione, adattamento, ispirazione: tanti sono stati i pretesti con cui, nella storia del teatro, i grandi autori hanno attinto al patrimonio di storie che li hanno preceduti. Shakespeare utilizzò il mito di Piramo e Tisbe per la rappresentazione degli artigiani in Sogno di una notte di mezza estate, ma soprattutto come matrice narrativa per Romeo e Giulietta. I capolavori del passato sono tali proprio per la loro sorprendente capacità di intercettare le inquietudini del presente.
Pino Carbone, quarantenne regista e drammaturgo partenopeo, al festival della Biennale 2019 ha presentato due spettacoli: il primo, ProgettoDue, è un dittico che in forma dialogica mette in scena nella prima parte l’incontro tra Ulisse e Penelope e nella seconda quello tra Barbablu e Giuditta; il secondo, Assedio, è una riscrittura del Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand. Storie ben presenti nell’immaginario collettivo e che rischiano di schiacciare quello del drammaturgo.

In ProgettoDue il grande merito di Carbone sta nell’aver instaurato con i classici un dialogo creativo. Durante il processo di scrittura, come ha spiegato l’autore durante l’incontro con il pubblico e con la stampa, le attrici che interpretavano Penelope e Giuditta hanno elaborato gli spartiti di Ulisse e Barbablu; viceversa, le parti femminili sono state scritte da lui, “regista uomo”. Questo gioco ha permesso di uscire dalla visione stereotipata dei personaggi: le prove a cui Penelope sottopone Ulisse sono così diventate espressioni della frustrazione di un donna costretta a vivere all’ombra di un uomo che tutti considerano più grande di quello che è. È qui che il lavoro di riscrittura funziona maggiormente: gli snodi emotivi del mito, legati al riconoscimento o alla gioia per le imprese compiute, al dolore per un tradimento e allo sforzo per dimenticarlo, scivolano in una dimensione di intima umanità.
Due esseri umani fanno i conti con sé stessi seduti ad un tavolo, l’uno di fronte all’altro: si tratta di una situazione che il drammaturgo ha mutuato da una performance di Marina Abramović, in cui l’artista lasciava che di fronte a lei si sedessero a turno degli sconosciuti spettatori e improvvisamente si è trovata davanti Ulay, ex compagno che non vedeva da anni, con conseguente, inatteso crollo emotivo.

Riscrivere significa quindi rapportarsi a esperienze e suggestioni anche diverse rispetto al classico di riferimento: per meglio delineare il personaggio di Barbablu fondamentale per Carbone è stata la lettura de Il cacciatore di anoressiche, romanzo autobiografico del 1997, il cui autore, Marco Mariolini, racconta la propria perversa attrazione per le ragazze affette da anoressia. Il filtro di questa esperienza rende accettabile la compassione per il mostro mangia-bambine della fiaba di Perrault, un mostro che un patologico desiderio di controllo costringe ogni volta a uccidere la cosa che ama, ed è spinto dalla solitudine a innamorarsi un’altra volta, e poi un’altra e un’altra ancora. Allo stesso modo umanissimo è il rifiuto di Giuditta, quando Barbablu le racconta in anticipo l’esito della storia: scopo del drammaturgo qui è creare una dialettica, un dubbio che possano esserci altre strade, anche farle solo percepire, visto che la storia non può cambiare. In questo modo le strade “altre” diventano quelle della donna che non riesce a sottrarsi al proprio carnefice, né a smettere di amarlo, neppure quando le mani di lui le si stringono attorno al collo.

L’operazione di riscrittura in Assedio parte invece da uno spostamento. In uno stanzino asfittico, un gruppo di persone assediate prova a mettere in scena la celebre vicenda del poeta spadaccino condannato, dalla propria bruttezza, a rinunciare alla donna che ama. Una storia di amore e poesia calata nell’orrore del lunghissimo assedio di Sarajevo. Gli attori in questo spazio angusto devono costruire le relazioni dettate dal copione mentre il tempo della guerra preme dall’esterno, e allora presto, bisogna passare a quell’altra scena, e poi ancora, perché non c’è abbastanza tempo; fino a che la guerra non si prende tutto, la bellezza di Cristiano e la passione di Cyrano, lasciando soltanto «un deserto da chiamare pace». Ciò che Carbone vuole restituire del testo di Rostand è «l’impulso che nasce dall’interno della scena», visto che il Cyrano è il frutto dell’urgenza di due attori, lo stesso Rostand e Coquelin, interprete del protagonista. Anche nel caso di Assedio assistiamo quindi a una drammaturgia in cui gli attori sono fondamentali all’interno del processo creativo, una drammaturgia che nasce dentro le dinamiche teatrali; e poco importa che l’efficacia dello spettacolo risieda maggiormente nell’interpretazione registico-attoriale dei passaggi-chiave del testo originale che nel più propriamente drammaturgico spostamento della vicenda in un altro spazio-tempo.
Riscrivere significa prima di tutto saper rileggere, e se torniamo a commuoverci quando un uomo sussurra alle orecchie di uno sciocco quell’amore che non può essere detto, il merito è anche di un autore la cui anima ha saputo ascoltare l’eco di una voce lontana, ma che in qualche modo ha sentito familiare.
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