
Fim de 3% – La distopia docimologica di produzione brasiliana su Netflix
Una distopia politica
Ho scritto per tre volte di 3% su «Birdmen Magazine» – serie originale Netflix che chiude ques’tanno dopo quattro stagioni – nonostante sia generalmente una serie ignorata. Perché mi sembra sia il primo tentativo genuinamente politico della serialità distopica contemporanea, escludendo Messiah (che però non è una distopia, con più precisione un’ucronia). Per capirci meglio, Snowpiercer, stroncata qui, è una serie elaborata su dei presupposti distopici che spingono a una costituzione per rigide classi della società, una forzatura che permette una più semplice definizione dei ruoli. La distopia è talmente palese e così spesso richiamata, così “assurda” da non parlare d’altro se non della e nella propria costruzione del mondo, dimenticando la realtà prima grazie alla quale si caratterizza, per scarto, quindi senza configurarsi come “critica” o “problematica”.
3% invece comincia con una veduta sul continente non molto dissimile da una qualsiasi immagine delle Favelas brasiliane: espressione di una distopia per distacco no: per prossimità e quindi in stretto dialogo con la contemporaneità dello spettatore.
La trama di 3%
In un mondo post-apocalittico, da un’apocalisse di tipo sociale di cui oggi potremmo vederne i prodromi, due sono i luoghi abitati dall’uomo: l’Entroterra e l’Offshore (su un’Isola). Ogni anno ha luogo un “Processo” dedicato ai ventenni, una selezione del 3% della popolazione, quem merece, che possa ingrossare le fila dell’Offshore, ricco e tecnologicamente avanzato, abitato dai migliori. Ovviamente, in gioco non può che esserci un gruppo clandestino di sabotatori che riconosce la disuguaglianza del Processo e chiede la ridistribuzione della ricchezza e delle risorse, la Causa, ma è inviso alla Divisione (l’Esercito) e alla Chiesa del Processo, venerante la “Coppia fondatrice” del luogo utopico. I protagonisti sono alcuni ragazzi ventenni, seguiti passo passo nell’impresa di raggiungere l’Utopia. La seconda stagione segue i personaggi che hanno raggiunto l’Offshore [Spoiler] – alcuni di loro, appartenenti alla Causa, vogliono distruggerlo. Michele, una di queste, interpretata da Bianca Comparato, grazie al possesso di dati sensibili, ottenuti nel recinto della spy story, ricatta l’Offshore, ottenendo viveri e tecnologie sufficienti a creare la Concha, una struttura nell’Entroterra in cui tutti sono i benvenuti, che possa costituire un’alternativa. Di qui la terza stagione [Spoiler] ambientata interamente nella struttura, nell’interno. Oltre a Michele, emergono con decisione altri leader, tutti dal processo della prima stagione, tutti con la propria idea di battaglia contro l’Offshore: Marco, Joana, Rafael, Natàlia, Elisa. Contro, non solo la nuova leader del Processo, Marcela, ma anche André, fratello di Michele. Alla fine della stagione, Marcela, dopo aver tentato di ribaltare la leadership della Concha con l’aiuto, controverso, di Marco e Gloria, viene imprigionata. Nasce un nuovo organo di governo, un esavirato intento a colpire l’Offshore con un impulso elettromagnetico.
La particolarità, detto così en passant, è che si tratti di una delle poche narrazioni in cui utopia e distopia convivono, quasi in ossequio alla loro etimologia di topi (dunque luoghi) e non di mondi alternativi. Dunque a fianco, o separati da un mare, attraversabile solo da un sottomarino a quanto pare, più probabilmente un espediente per rendere la transizione meno scoperta, come si trattasse di una navicella.
Scrivevo recensendo la terza che «L’esplicitazione del motivo socio-politico si attua nel momento in cui al gioco distopico della battaglia tra mondi si sostituisce l’appello alla costruzione di un’alternativa». L’alternativa però non può esistere finché esiste lo stato, o ciò che nella finzione distopica funge da organo di controllo, perché non persegue altro che la sua conservazione, a costo di scendere a patti con il proprio orizzonte etico. Dunque si ritorna, spinti da un generazionale senso di rivalsa, a delle ipotesi distruttive. La quarta stagione di 3% è una riuscitissima storia di spionaggio politico, una guerra calda fatta di tradimenti, attacchi fisici e psicologici, contropiedi. Ma è tanto altro.

La docimologia, scienza tra le scienze
In ogni creazione che si rispetti c’è bisogno di un orizzonte etico, di un senso comune, di una mitologia dominante. La linea di separazione tra utopia (l’Offshore) e distopia (il Continente) è tracciata dal Processo, che è in tutto un concorso pubblico: l’unico rimasto e necessario alla sopravvivenza di entrambi i mondi, in qualità di finestra su un futuro individuale migliore (allo stesso modo della Lotteria, che non a caso in numerosi racconti di fantascienza interpreta lo stesso ruolo); in qualità di miglioramento di una perfezione già, apparentemente, raggiunta. Questa fondamentalità del Processo spinge allo sviluppo, da parte di chi lo gestisce – dunque lo Stato di cui si parlava, l’Offshore – di una docimologia evolutissima. Ovvero al perfezionamento di una scienza della valutazione, che si rivela alla fine nei suoi paradossi: una valutazione metodologicamente condotta non può prescindere da una meta-valutazione, cioè da una valutazione della valutazione. L’Offshore invece attribuisce quasi significato divino al Leader del processo che ha in toto un potere personalizzante, modellando i nuovi “scelti” su di sé e non sui bisogni della società di cui andranno a far parte (e in realtà, probabilmente, è una sorta di rimozione, perché l’utopia necessita di nulla). L’ultima stagione, la fim di 3%, chiude il cerchio: la coppia fondatrice dell’Offshore [spoiler] aveva previsto la deriva aristocratica dell’utopia creata e aveva programmato un test finale rivolto ai leader delle fazioni concorrenti, che però tenesse conto di un’ideale di collettività, democrazia e condivisione, tutto ciò che nel Processo ufficiale è posto in secondo piano. Questo avrebbe permesso il ribaltamento delle prospettive.

La tradizione come fardello
A questo punto, la tradizione-fardello secolare (non eterna, checché ne dica la chiesa) diventa il luogo e il tempo del riscatto del presente. Si diceva del “politico” all’interno di 3%: minuti finali della puntata di chiusura sono una lunga processione, una delle scene più genuinamente entusiaste di tutta la serialità e cinematografia contemporanea (e mi ha sinceramente colpito la produzione Netflix, pur low budget). Come non pensare a come ora sia il Brasile? Impossibile. Il coraggio di proporre un’idea politica tramite una serie, questo il merito, il vero merito.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] esistita da per sempre è un sistema valutativo (utopia docimologica affacciata alla distopia? Mi ricorda qualcosa) che rappresenta solo una seconda gabbia, ma più stringente, più atroce per la maggioranza. La […]