
Messiah – Tra il miracolo e l’illusione
Nel racconto breve The second advent (1881) Mark Twain diede vita ad un Cristo che, tornato sulla terra in un piccolo villaggio dell’Arkansas, voleva soddisfare tutti i bisogni degli uomini dispensando miracoli, ma ad ogni miracolo corrispondeva una catastrofe, o molti guai. Fëdor Dostoevskij, più o meno nello stesso periodo, nel suo straordinario romanzo L’idiota, delineava la figura ambivalente e ideale del principe Myškin. “Idiota” etimologicamente può voler dire «distinto dagli altri», «straniero», in senso lato qualcuno che proviene da un’altra sfera, da un’altra dimensione di viventi. Dostoevskij ne era consapevole, per questo motivo il principe Myškin si oppone al mondo che lo circonda, non per egoismo quanto per natura, per sua indole.
Michael Petroni, sceneggiatore di The rite (2011) e The Book Thief (2013), nella nuova serie Netflix Messiah, da lui creata e prodotta, tenta di tratteggiare una figura a metà tra la blasfemia di Twain e l’idealismo drammatico di Dostoevskij, in un’operazione coraggiosa nonostante i suoi limiti. Il Messia di Petroni è anche lui uno straniero. Non proviene né dalla Svizzera né dal villaggio di Black Jack dell’Arkansas, bensì dall’Iran. A pochi minuti dall’inizio della serie un uomo si presenta su un alto gradino in una piazza affollata intento ad annunciare la fine della guerra a Damasco con l’aiuto di Dio. Basta aver fede, dice. La profezia si avvera, poiché una tempesta di sabbia devastante respinge i soldati al di fuori della città. Da questo episodio esemplare inizia la storia di Al-Masih, a cui subito viene attribuita la nomea di profeta e di Messia.
La sua apparizione attira velocemente le attenzioni della CIA, in particolare dell’agente Eva Geller (Michelle Monaghan), che inizia una turbolenta ricerca insieme poliziesca ed esistenziale; allo stesso tempo il giovane profeta, dall’accento indefinibile, per l’appunto straniero (ma da dove viene? per chi lavora? Questi i quesiti che si affacciano nella prima parte della serie), grazie ai social network e ad alcuni video virali, dal Medio Oriente fino agli scettici USA, raccoglie consensi, nemici e seguaci. Ogni incontro, con ogni uomo o paese, è un’occasione di proselitismo, di conversione, non tanto religiosa quanto umana: dalla cinica agente della CIA fino al sanguinario Aviram, dall’America bigotta – ben rappresentata da Petroni – ai palestinesi in cerca di una terra. Al-Masih ha un’incredibile forza centripeta, perché l’intero sistema di personaggi e lo spettatore stesso attendono le sue decisioni, tentano di prevedere le sue mosse future.
Petroni mostra, come già Twain aveva intuito, la portata mediatica di un tale avvenimento, lo sciame umano avido di miracoli, il collasso di un sistema di valori dichiarato fino a poco tempo prima intoccabile, come per esempio la fedeltà al lavoro e alla CIA di Eva Geller. Infatti Al-Masih sconvolge non solo, su un piano macroscopico, le politiche di guerra statunitensi e le strategie dei servizi segreti, ma anche, su un piano microscopico, i singoli nuclei familiari: Jibril, Rebecca, il predicatore Felix e sua moglie, Aviram e la Geller subiscono tutti l’influenza delle intuizioni del Messia, la cui forza simbolica risiede sopratutto nel svelare allo spettatore l’altra faccia degli eventi e dei rapporti interpersonali tra i vari personaggi.
[Spoiler] Se Al-Masih è davvero il Messia o semplicemente un impostore è una domanda che rimane aperta fino all’ultima puntata della serie, la cui sceneggiatura si rafforza proprio dalla tensione tra verità e menzogna, tra miracolo e illusione. Ciononostante la narrazione spesso si ingarbuglia nelle innumerevoli sottotrame che cerca di far coincidere nei momenti più drammatici e incespica in dialoghi prevedibili e in personaggi mal caratterizzati psicologicamente, come Eva Geller e Aviram (in qualche modo, pesa l’antigrafo di Homeland, sia a livello fisiognomico sia a livello ontologico).
Inoltre la regia di Kate Woods e James McTeigue serve scrupolosamente la missione di inseguire la storia, di rincorrere il miracolo quasi come i giornalisti irrequieti alla ricerca di un segnale di razionalità nella parole criptiche di Al-Masih. Il ritmo narrativo è frenetico, abile nel mantenere alta la tensione laddove serve, come nei punti di raccordo tra le storie secondarie; tuttavia molte volte si disperde nell’ansia di completare un ragionamento o una tematica solo abbozzata (la corsa al miracolo della madre con la bambina malata o il rapporto tra Rebecca e Al-Masih, tra Jibril e Al-Masih).
Comunque, a parte alcuni punti deboli, forse dovuti a questioni produttive, Messiah mette in campo una tematica coraggiosa, non priva di contraddizioni. Michael Petroni si rifà ad una tradizioni letteraria che, oltre ai già citati Twain e Dostoevskij, accoglie anche Jorge Luis Borges. Il suo Messia è catapultato nei tumulti della guerra in Siria, nei contrasti ideologici del precario Occidente, non escluso da fondamentalismi e da disordini politici. Forse sta qui la bravura di Petroni: mettere allo specchio due mondi apparentemente opposti, i profughi siriani e la fila di automobili dietro al presunto Messia, entrambi uniti da un bisogno di fede, da un appiglio irrazionale a cui aggrapparsi.
Purtroppo Netflix ha deciso la cancellazione dello show. Forse, tra le considerazioni, il blocco dovuto all’emergenza globale.
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[…] sia il primo tentativo genuinamente politico della serialità distopica contemporanea, escludendo Messiah (che però non è una distopia, con più precisione un’ucronia). Per capirci meglio, […]