
La belva – Un lavoro sul genere che ha poco nervo
Se in Italia c’è qualcuno che prova a inventare e supportare un cinema differente, quello è Matteo Rovere con la sua Groenlandia (fondata nel 2014 assieme Sydney Sibilia). Un produttore e una casa di produzione che credono nelle opere dei giovani artisti e che spingono perché questi possano esprimersi nella maniera più libera possibile, cercando di veicolare il fondamentale messaggio che l’investire nel cinema è l’atto di fede primo e necessario per andare a colmare il gap con i più grandi mercati cinematografici del globo (che crescono guardando soprattutto al prodotto locale, basti vedere il modello Corea dell’ultimo decennio).
Due capitoli di Smetto quando voglio di Sibilia, Il campione di Leonardo D’Agostini e sopra tutti Il primo re proprio di Rovere sono probabilmente tra i modelli più emblematici di un nuovo corso che sembra possibile, tenendo a mente anche il recente arrivo su Sky della serie tv di Romulus. Su questa scia d’ambizione va a inserirsi La belva, seconda opera firmata da Ludovico Di Martino, prodotta da Groenlandia e destinata originariamente a sbarcare sul grande schermo grazie alla distribuzione di Warner Bros. Italia, salvo virare in extremis sullo streaming di Netflix a causa della pandemia.

Un film che guarda con grande foga al thriller-action d’oltreoceano, catturando tra i suoi riferimenti primari la saga di grande successo di Taken (Io vi troverò, che pure era di produzione francese) e cercando di rifarcisi il più possibile estrapolandone gli archi di tensione della propria narrazione. Quindi, il perno imprescindibile sul quale far ruotare l’intero discorso è rappresentato da un unico protagonista forte e dalle origini radicate in un passato belligerante, al quale viene sottratto un affetto stretto in grado di mettere in moto gli ingranaggi. Un primo punto di frizione de La belva si riscontra in realtà proprio qui, nel personaggio del capitano Leonida Riva, veterano di guerra tormentato da un rimosso che riemerge facendosi strada nella nebbia dalla quale si lascia offuscare attraverso un copioso utilizzo di psicofarmaci.
Il modello del soldato che torna dalla guerra e spesso affetto da stress post-traumatico è una coordinata radicata a fondo nel cinema statunitense perché parte di un tessuto ideologico che considera il conflitto – e le sue conseguenze – come una costante del proprio percorso storico, che per questa ragione fa breccia nel prodotto artistico che finisce anche per esorcizzarlo in epocali sfoghi come quello di Rambo. Una dimensione che risulta presa in prestito da La belva e difficilmente collocabile nella cornice culturale nostrana, che eppure è solo un primo tassello di un traslare interi blocchi di immaginario riconfigurandoli in un’ottica ibrida non totalmente convincente.

Nulla da togliere a Fabrizio Gifuni, nei panni di un Riva austero e inflessibile che si carica interamente sulle ampie spalle il peso di far sfondare a suon di pugni il racconto che lo vede alla ricerca della figlia che è stata rapita (senza troppi fronzoli) da un gruppo di criminali del sottobosco urbano. Una città che si pone nel suo grigiore a personaggio secondario de La belva, anch’essa inquadrata il più possibile nel preciso tentativo di svuotarla di qualsiasi riferimento che non sia quello rappresentato dall’acciaio e dal cemento della metropoli contemporanea, covo ideale di una rete criminale caratterizzata dal lavoro fatto sulle maschere al confine del macchiettistico, che eppure tra i tatuaggi e il pittoresco vestiario è probabilmente la scheggia più vagamente evocativa. Perché sa troppo di derivativo anche lo sguardo che viene lanciato dalla regia agli ambienti come quello di una questura che nel rendersi tecnologica e futuribile si scopre anonima e si priva di qualsiasi carattere (così come lo scialbissimo ispettore di Lino Musella), palesando anche una evidente difficoltà della mdp nel mostrare nervo negli istanti in cui si allontana dal suo protagonista.

Nel percorrere i vari scenari della storia si riesce anche a sospendere, con un po’ di sforzo, la credibilità poco prima che questa tracolli, ma il passo di compensazione che dovrebbe intervenire qui, ovvero l’effettiva capacità di intrattenimento, sfiamma a fasi alterne lungo tutti i circa 90 minuti di girato. Il capitano Riva spazza via i propri ostacoli (pochi, considerato tutto) senza che questi rappresentino mai una concreta minaccia al raggiungimento del suo obiettivo, azzeccando il giusto mood in un paio di sequenze in grado di regalare l’adeguato appagamento allo spettatore. Appagamento che però sfuma via molto rapidamente, soprattutto in occasione dell’incontro/scontro con il boss di fine livello, caratterizzato male e tolto di mezzo con una rapidità anticlimatica che sottrae efficacia all’insieme.
Un po’ dispiace notare come La belva nel tentativo di portare una ventata d’aria fresca nel palcoscenico nazionale non faccia altro che rimbalzare su un genere in realtà già ampiamente sviscerato altrove, probabilmente andando a scivolare di più lì dove prova a mettersi a cavallo di immaginari dei quali non cattura l’essenza e che finisce per restituire senza una reale identità.
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