
La caduta della casa degli Usher – Il mausoleo dell’orrore di Poe e Flanagan
«Considero la famiglia il luogo più sicuro al mondo. Quindi, quando si tratta di parlare di cose che mi fanno paura, introdurre elementi di instabilità e tensione in quello che dovrebbe essere l’ambiente più sicuro al mondo mi impressiona particolarmente. L’horror è il posto sicuro in cui, come cultura, possiamo affrontare le cose che ci sconvolgono e spaventano – il lato più oscuro della nostra natura. Per qualche motivo, la famiglia è il campo di battaglia in cui, per me, avviene questo scontro personale». Ancora una volta sotto l’egida della N rossa di Netflix come fosse un corvo luciferino e guardingo, Mike Flanagan torna a rivisitare un classico della letteratura dell’orrore – stavolta tocca a La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe – per imbastire un’architettura e uno spazio attraversabile, abitabile, dilatabile potenzialmente all’infinito, un gioco di scatole cinesi che riguarda le possessioni dei personaggi portati in scena, i loro timori e il coraggio di andare avanti.

A differenza di The Haunting of Hill House, The Haunting of Bly Manor e The Midnight Club, però, non c’è un solo libro a fungere da coordinata di riferimento da adattare e trasformare, oggetto diabolico che muta forma per perfezionare – immagine dopo immagine, parola dopo parola – l’universo coerente in via di costruzione del regista di Salem ma l’intero corpus narrativo a cui Edgar Allan Poe ha dato vita, un mausoleo dell’orrore colmo di schegge incoerenti e contraddittorie quasi fosse un’entità fisica dotata di sangue e organi, un luogo in cui trovano spazio quelle voci e quei racconti che disegnano i confini ondivaghi della nostra moltitudine. La scrittura e la messa in scena di Mike Flanagan si muovono per stratificazione e non tanto per progressione – a dimostrarlo è proprio la genesi de La caduta della casa degli Usher, che ci scaraventa in medias res affidando allo spettatore il compito di ricomporre le tessere di un mosaico che inizierà a rendersi decodificabile dopo qualche episodio – e danno vita a un sistema narrativo spiraliforme che si amplia e si estende, ricalibra di continuo il proprio focus e consente al personaggio che credevamo essere il protagonista l’emigrazione ai margini dell’inquadratura, mentre altri prendono il suo posto al centro del palcoscenico.

Quel palcoscenico in questione è il maniero degli Usher (entità differente da Hill House e Bly Manor, e più simile all’isola di Crockett di Midnight Mass), un dedalo di corridoi e stanze nel cui salone centrale si sta tenendo una chiacchierata tra Roderick Usher e C. Auguste Dupin. Il primo è il patriarca della dinastia Usher, che ha portato l’azienda farmacologica Fortunato allo zenit del successo grazie all’invenzione del Licodone, un forte antidolorifico molto venduto ma assai discusso a causa dei suoi gravi effetti collaterali che hanno portato a un processo intentato dagli USA contro la sua società. Cresciuto in povertà insieme alla sorella Madeline da una madre single e mai riconosciuto dal padre biologico, Roderick ha sviluppato un forte senso di responsabilità nei confronti dei sei figli (legittimi e illegittimi) al punto tale da considerarsi artefice della morte di ognuno di loro. La scalata al potere ne ha mutato drasticamente la personalità fino a trasformarlo nell’emblema del capitalismo più rampante e contraddittorio. C. Auguste Dupin, invece, è un assistente procuratore nonché vecchia conoscenza di Roderick che da tempo cerca di far incriminare la Fortunato, gli effetti dannosi del Licodone e anni di irregolarità ambientali e di sicurezza abilmente celati dall’azienda. L’uomo incontra Roderick nel salone del suo maniero per sentirsi raccontare gli eventi tragici e bizzarri che hanno portato alla morte dei suoi figli e alla conclusione della sua dinastia.

A proposito dei confini ondivaghi della nostra moltitudine e delle schegge incoerenti e contraddittorie che compongono l’ensemble di flesh and blood che sono gli esseri umani, è bene considerare lo specchio del sesto episodio – intitolato Lo scarabeo d’oro – come un particolare punto di vibrazione in grado di esemplificare uno degli oggetti ricorrenti nelle haunted house edificate da Mike Flanagan e, allo stesso tempo, un marchingegno narrativo e iconico i cui echi si rivelano ogni volta sotto nuovi aspetti infestando continuamente i fotogrammi del suo fare cinema. Nell’episodio citato, il corpo del personaggio di Tammy Usher viene dilaniato dai frammenti di una parete a specchio sul soffitto che si infrange e le procura la morte. Lo specchio è un simbolo polisemantico che investe la sfera delle apparenze ma anche quella dei significati, è la singolarità univoca che contiene il due e che racchiude corpo e psiche. Chiave di accesso al delirio psicotico del personaggio, lo specchio è un riflesso, un indicatore simbolico di un doppelganger al lavoro, arma di un altrove che scinde la mente di Tammy, troppo debole per resistere allo scontro con il demonio (etimologicamente, d’altronde, il diavolo è il doppio).

E proprio di un patto mefistofelico si è reso protagonista Roderick che, da novello Faust o Dorian Gray, ha immolato la sua stirpe al demone della ricchezza e del potere. Tempi rarefatti, dilatati e cadenzati nascondono l’opportunità per una più profonda esperienza estetica e drammaturgica in cui il supporto seriale si conferma come la piattaforma in cui le narrazioni di Mike Flanagan riescono a sviluppare in modo più appropriato il proprio furore creativo. Citando Borges, La caduta della casa degli Usher è un labirinto senza centro – in cui a poco serve, tutto sommato, soffermarsi sugli inside joke e sulle reference più esplicite ai lavori di Edgar Allan Poe – che somiglia all’Overlook Hotel di Stephen King/Stanley Kubrick, una gigantesca struttura orrorifica in cui ogni camera d’albergo dispiega nuove terrificanti fantasie. Trasformando le sue immagini in un campo di forza e nella sede dello scontro tra Storia e memoria, ancora una volta il regista di Doctor Sleep mette a sistema un approccio di circolarità narrativa in cui architettura dei luoghi coincide con quella del racconto. Se romanzi gotici quali L’incubo di Hill House, Giro di vite e La caduta della casa degli Usher costruiscono castelli e dimore dall’aria sinistra ricorrendo a figure retoriche quali ossimori e iperboli, Mike Flanagan riesce a sfruttare il linguaggio cinematografico per rendere sullo schermo la perversità di questi luoghi, che si negano a ogni tentativo di cartografia. Tramite il ricorso a piani sequenza, giochi di luce, split diopter shot, montaggio interno basato sulla dialettica tra primo, secondo e persino terzo piano, il regista consente allo spettatore di perdersi nei meandri di questi vasti spazi interni insieme ai protagonisti della narrazione. Allo stesso tempo, il filmmaker utilizza le parole e il loro ritmo per dare vita a una suspense delicata ma palpabile e crescente, un cortocircuito disseminato di incongruenze che toglie stabilità ai protagonisti intrappolandoli in un loop e obbligandoli a fare i conti con un passato infestante – che riscuote sempre e comunque i suoi debiti. Ad aver diretto gli episodi della serie insieme a Mike Flanagan è stato Michael Fimognari, storico collaboratore del regista nei panni del suo direttore della fotografia fin dai tempi di Oculus – nonché occhio dell’elevated horror insieme a Mike Gioulakis, con cui condivide la direzione della fotografia di alcuni dei più noti progetti dell’orrore dell’ultimo decennio.

Nel cinema e nelle serie di Mike Flanagan, sono i personaggi stessi a essere raven-ant infestanti, storie che si raccontano e si dirimono come matasse, spettri condannati a un meccanismo di mise en abyme dei sogni, di cui ricordano il senso generale ma non i dettagli, che usano poi a proprio piacimento per costruirsi una ragione a proposito di ciò che non comprendono. Va così per Roderick Usher, che proprio non riesce a spiegarsi le morti dei figli e, per risalire alle origini del proprio patto col diavolo, deve linearizzare e restituire l’immagine razionale di una logica temporale spiraliforme. E va così anche per Tammy Usher che, per esperire la propria sessualità, mette in scena dei soft porn con il marito e una terza incomoda; per Frederick Usher, che precipita in una spirale di droga e non riesce ad accettare la verità che ha sua moglie come protagonista; per Camille L’Espanaye, Leo Usher e Victorine LaFourcade, che forzano continuamente i confini della realtà pur di costruirne una versione alternativa che soddisfi i loro desideri. A furia di avere a che fare con feticci, però, proprio in questo aspetto consiste il peccato personale dei personaggi – che, piuttosto che vivere il loro presente in ogni istante, lasciano che il passato e il futuro si trasformino in ossessioni vacue.

L’ultimo progetto firmato da Mike Flanagan per il colosso dello streaming è il gigantesco deposito del suo immaginario, un parco dei divertimenti che accoglie l’anima melodrammatica del regista di Salem, una biblioteca in cui ogni tomo impolverato non aspetta altro che un lettore che lo riporti alla luce, ne attualizzi l’orizzonte immaginario di senso e cooperi affinché le storie vivano attraverso il suo sforzo interpretativo.
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