
Concorto Film Festival 2020 – Il giornaliero del 27 agosto
Focus Irlanda. La (nostra) seconda giornata, e secondo giornaliero, di Concorto Film Festival 2020 incomincia a Palazzo Ghizzoni col secondo slot del focus irlandese, curato da Virginia Carolfi, che s’apre sul doloroso Inhale di Sean Mullan, dove un uomo, segnato dai lutti familiari, attraverso i cavalli, cura il suo dolore, e tenta di trasformare la fatica e la sofferenza fisica in cura dell’anima. A seguire veniamo catapultati nei precipizi animati della memoria con Late Afternoon di Louise Bagnall, che riflette con sapienza e leggerezza sui baratri emotivi che spalanca l’Alzheimer. Viene il turno, poi, di Joe Duffy e del suo The Lament, un volo col drone sopra i luoghi rurali e silenziosi dei cellini, cioè le tombe dei bambini morti prima del battesimo e a cui la comunità cattolica rifiuta la sepoltura in terreno consacrato. La rassegna si chiude sul racconto metaforico di An island di Rory Byrne e sul monologo anti-brexit, allusivo e anch’esso metaforico, di Donnú Bréige di Amy Hodge interpretato da Evanna Lynch.
di Maria Francesca Mortati e Luca Mannella
Film in concorso
Route 3 (Grecia/Bosnia, 2019) di Thanasis Neofotistos segue la corsa di un tram a Sarajevo. Ad unire nella diegesi le persone presenti è uno spicchio d’arancia – distribuito ai passeggeri da una signora con abito leopardato – che simbolicamente rappresenta l’iniziazione sessuale del protagonista, Amar. Il ragazzo cerca disperatamente di attirare l’attenzione di una ragazza con un hijab rosa, ma il tram particolarmente affollato non lo aiuta nel suo intento, lasciando per lo più spazio al voyeurismo e alle allusioni (qui per vederlo).
In Zhe li bu shi na li (Here is not there, Singapore 2019) il regista Nelson Yeo si sofferma sulla decadenza delle periferie urbane, sul senso di non appartenenza degli operai immigrati a Singapore. Il loro posto non è qui, e non è lì: sono simili a fantasmi. I due protagonisti – dei quali non conosciamo il nome – condividono le loro esperienze instaurando una relazione, fino a che una gravidanza inaspettata non cambia le cose. La questione dell’immigrazione è centrale anche nel cortometraggio di Tomer Shushan’, Ayn levana (White eye, Israele, 2019) che, a partire dal furto di una bici, racconta sotto le righe l’epopea della clandestinità.
Dcera (Daughter, Repubblica Ceca, 2019) di Daria Kashcheeva è un cortometraggio in stop-motion incentrato sul rapporto padre/figlia e sul tema del lutto. L’assenza di dialoghi, che in un primo momento si mostra funzionale a veicolare la mancanza di comunicazione tra padre e figlia, non impedisce invece al cortometraggio un’efficace trasmissione del senso grazie al particolare character design in cartapesta e ad una regia singolare fatta di camera a mano dai movimenti veloci e fuoco molto stretto (qui per vederlo). Un’altra storia che indaga il rapporto tra padre e figlia correlato al lutto la porta sullo schermo Marianne Métivier con Celle qui porte la pluie (Canada, 2019). Il padre di Agnès è in fin di vita, e la ragazza reagisce allo stress rifugiandosi in un’umida foresta: in qualche modo, dovrà scendere a patti con la morte e affrontare il lutto, per poter essere vicina al padre negli ultimi attimi della sua esistenza (qui per vederlo). C’è chi invece al capezzale del padre riceve, tra un parlare di carne macinata e l’altro, rivelazioni stravolgenti: I väntan på döden, (Awaiting Death, Svezia, 2019) di Lars Vega e Isabelle Björklund (qui per vederlo) ha il tipico umorismo svedese (che, a giudicare dalle reazioni del pubblico, è molto apprezzato).
In Dĺa de la madre (Stati Uniti, 2019), Ashley Brandon e Dennis Hohne seguono una banda di bambini della Mariachi Academy intenti a fare una sorpresa alle proprie madri, nel cuore della notte, in occasione della Festa della Mamma. In sei minuti, il corto offre un omaggio alla figura della madre e alle tradizioni messicane.
Agustina Comedi realizza con Playback. Ensayo de una despedida (Argentina, 2019) uno splendido documentario su un particolare aspetto della comunità LGBT+ negli anni Ottanta a Cordoba, in Argentina. Dopo la fine della dittatura militare, un gruppo di tre donne transgender e drag queen forma un collettivo artistico, Kalas. La Delpi, La Colo e La Gallega, con i loro spettacoli, con tacchi e lustrini, fanno la rivoluzione. L’AIDS grava sulla comunità LGBT+ di quegli anni: La Delpi è l’unica sopravvissuta. La regista lascia alla performer uno spazio in cui la sua voce possa tornare a farsi sentire, e fornire un finale alternativo per la storia delle sue amiche. È come una lettera d’addio, in cui la voice over accompagna sia le VHS dell’epoca, sia la ricostruzione di un finale migliore (qui per vederlo).
Electric swan – Ubik
Chi sta in alto trema, chi sta in basso annega: questa sembra essere la logica dell’edificio sulla Avenida Libertador 2050, a Buenos Aires. Un moto di disgregazione e un destino profetizzato da una bambina dai boccoli rossi, legano gli abitanti del palazzo, ricchi e benestanti, e il portinaio (Juan Carlos Aduviri), un personaggio vuoto attorno a cui ruotano altri personaggi non comunicanti, che non conoscono altra forma espressiva al di fuori dell’ordine impartito, vuoti, o svuotati: dall’ansia della caduta, dalla nausea per i soffitti tremolanti. Un moto tellurico che dalla punta del condominio sgocciola sotto forma di perdita idraulica fin giù nel seminterrato, dove Carlos (il portinaio) vive, insieme al suo tapis roulant, e che sembra derivare direttamente, come forza gravitazionale occulta, dalla luna e dal lago dei cigni elettrici. Konstantina Kotzamani si inserisce pienamente nel filone della new-wave greca, accanto al grottesco surrealismo di Yorgos Lanthimos e ai suoi effetti alienanti, nonostante Electric Swan (dalla durata stratosferica di 40 minuti per un “cortometraggio”) pecchi ancora di qualche incongruenza, nonostante si sfilacci troppo durante la narrazione per immagini a color pastello.
Qui il giornaliero del 26 agosto.
Scopri qui il programma completo.
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