
Diabolik Pop – Mario Bava, Ennio Morricone e il no a Catherine Deneuve
Dicembre 2020, con la proposta dei Manetti Bros e il cast annunciato (Luca Marinelli, Miram Leone, Valerio Mastandrea), magari racconterà tutt’altra storia. Glielo (ce lo) auguriamo. Almeno fino ad oggi però, le cose stanno così. Sei decenni di successi, ma il cinema resta l’unico colpo mancato da Diabolik. Circostanza singolare, perchè in totale controtendenza con il successo pluridecennale e trasversale a epoche/mode/generi di un totem del fumetto, nato nel 1962 per volontà di Angela Giussani, più avanti accompagnata dalla sorella Luciana. Lacrime amare al botteghino nel gennaio 1968, generalizzata l’insoddisfazione critica per il Diabolik diretto da Mario Bava. Il bacio della morte lo riserva con crudeltà lapidaria Tullio Kezich, non proprio un peso piuma della professione, che liquida il film come uno dei più stupidi degli anni ’60. Bene, no? L’insuccesso sorprende Dino De Laurentiis, che al film aveva dedicato più di una speranza e pure qualche soldino. Magari lo sfoggio di gigantismo produttivo, che per il produttore valeva come manifesto ideologico (e buoni 3/4 della sua leggenda) è in tono leggermente minore. Insomma, 200 milioni di lire non era un budget da capogiro per gli standard dell’epoca. La messe di talento raccolta attorno al film è notevole. Bava dirige, Ennio Morricone, (ne parleremo più avanti) alla musica, un cast collaterale di tutto rispetto: Adolfo Celi e Michel Piccoli e per breve tempo persino Catherine Deneuve, dannazione. All’estero le cose vanno un pochino meglio, soprattutto dal punto di vista critico. I Cahiers du Cinema su tutti adorano, d’altronde gli osanna esteri e l’ostracismo in patria è una costante della carriera di Bava e questo in parte, ma solo in parte, spiega la fredda accoglienza. La rivalutazione tardiva fa del film un cult imitatissimo e molto citato. L’esempio qui sotto è la parodia/omaggio al film contenuta nel video di Body Movin’, pezzo dei Beastie Boys .
Agli albori del cine-comic
Forse il tempismo dell’operazione non è stato dei migliori. In effetti Diabolik arriva al cinema con due anni di ritardo rispetto all’Umberto Lenzi di Kriminal, uno dei tanti epigoni nati nel corso del decennio nel tentativo di clonare (con poca efficacia) il cocktail Giussani, replicando l’amoralità dell’originale iniettata a robuste dosi di sadismo e violenza gratuita. Caso raro, ma non impronosticabile, della copia che anticipa e satura il mercato all’originale. Il 1966 è anche l’anno di Modesty Blaise – La bellissima che uccide, con il tandem Joseph Losey e Monica Vitti ad adattare la striscia a firma Peter O’Donnell. Contemporaneo è invece Barbarella, innocua e meno ambiziosa fantasia camp di successo, tra l’altro prodotta dallo stesso Dino De Laurentiis. Tirando le somme siamo agli albori, piuttosto disomogenei e incoerenti, dell’era cine-comic. Manca una visione di sistema, una lucida consapevolezza sulle potenzialità economiche e d’immaginario del fumetto trasposto al cinema. Manca lo scarto di un’intuizione, o magari solo la fiducia nella capacità del pubblico di accogliere un tipo di prodotto che per l’epoca, bisogna ricordarlo, rappresentava comunque una novità. Stupisce il trio d’autore Lenzi – Bava – Losey, che per il genere rappresenta uno standard qualitativo che male si sposa con gli orientamenti attuali. Fumetto d’autore nel cinema contemporaneo, eccetto l’ovvio Christopher Nolan e il più derivativo Todd Phillips, si fa fatica a trovarlo. Per la verità, Diabolik, doveva dirigerlo Tonino Cervi.
La repulsione di Catherine Deneuve
Tonino Cervi alla regia e Jean Sorel nei panni del Re del Terrore. Il punto è che l’ingaggio del francese è legato a quello del regista e quindi, silurato Cervi e convinto Mario Bava, Dino De Laurentiis non si fa problemi e in un colpo solo si sbarazza anche del francese, rimpiazzandolo con John Philip Law già incontrato sul set di Barbarella. Effimera, l’abbiamo ricordato, è l’esperienza sul set di Catherine Deneuve, che perde il ruolo di Eva Kant dopo più o meno una settimana di riprese. Per verdetto unanime, tra l’altro, il che aggiunge sorpresa a sorpresa. Il clamoroso allontanamento nasce dalla mal sopportata (dalla produzione) indisponibilità dell’attrice a mostrarsi senza vestiti in scena. La sostituisce Marisa Mell, che molto somiglia, in effetti, a Eva Kant. Certo non ha nulla della rigida fisicità dell’ispettore Ginko il fascino borghese e abbastanza indolente di Michel Piccoli, l’instancabile (e spesso battuto) avversario di Diabolik cui l’attore francese regala una bella caratterizzazione, forse la migliore del film. D’altronde, spiegavano le sorelle Giussani, Ginko è uno stato mentale. Non conta l’aspetto, ma ciò che fa e come lo fa.
Violenza sì, violenza no
Lotta disperata, L’ombra della notte e Sepolto vivo! sono i tre episodi dei primi anni ’60 utilizzati per tirar su l’impalcatura narrativa del film, per la verità piuttosto scarna. Sarà motivo di contrasto tra regista e produttore la discussione sulla viscerale violenza dell’originale a fumetti. Riprodurla o no? Il primo la vorrebbe, il secondo fa le barricate e ahinoi la spunta. Ciò basterà a convincere Bava a darsi malato pur di scampare la succosa proposta di De Laurentiis. Quest’ultimo, colpito assai dalla disciplina del regista che imposta le riprese nel segno della più rigorosa economia dei mezzi tanto da chiudere il film mantenendosi addirittura sotto budget, gli propone di tornare per un seguito. Che però non si farà. La trama è lineare e senza troppe sorprese. Jaguar E-Type, inseguimenti tra rettilinei e curve alla cieca, trucchi meravigliosamente inverosimili (quello del riflesso è un cavallo di battaglia del personaggio). Diabolik ruba un mucchio di soldi facendosi beffe di Stato, polizia e società civile. Ginko comprensibilmente non la prende troppo bene. Tenta un’imboscata con l’aiuto di un paio di smeraldi e un boss della malavita, Adolfo Celi, in un ruolo che ha qualcosa del suo passaggio sul fortunatissimo Agente 007 – Thunderball (Operazione Tuono).
Tra 007 e Pop art
Il riferimento a James Bond è tutt’altro che casuale. In più di un senso Diabolik è per l’originale a fumetti ciò che i film di 007 erano per i romanzi di Ian Fleming. Un mix di intrecci sofisticati, sesso e violenza serviti su base smaccatamente action, estetica coloratissima virata Pop art e gadget futuristici che veicolano innocuo divertimento e qualche abbocco subliminale alle grandi ossessioni dell’epoca. Le sorelle Giussani hanno immaginato Diabolik come un principio inamovibile del tutto indifferente alla forza di gravità. Se vuole volare, vola, se vuole posarsi a terra, si posa a terra. Incarnazione del Male assoluto che si rivolge solo contro il Male, la sua amoralità è il netto e glaciale rifiuto delle regole di un gioco e di un mondo poco interessante ai suoi occhi, nei confronti del quale è al contempo a lato e al di sopra. Il film reinventa la formula colorando di indulgenza edonistica, e di malizioso divertimento, l’amorale spirito del suo protagonista. Il significato è univoco, che si tratti di un bel corpo, del profilo di una macchina da corsa, di un campionario di diavolerie tecnologiche o dell’ebbrezza della pura velocità. Il mondo di Diabolik è la radiografia impietosa di un decennio e della sua filosofia di plastica. Una forsennata corsa all’accaparramento, vuota di contenuti e devota al piacere, da consumarsi in fretta e in maniera esteticamente gratificante. Qualcuno deve arrivare prima degli altri. Pochi dubbi sul vincitore.
John Philip Law lavora di sopracciglia, e serve adeguatamente l’umore taciturno del protagonista. Manca, in maniera abbastanza impietosa, del carisma necessario a sostenere l’icona e chissà cosa ne avrebbe fatto Sorel. Marisa Mell somiglia somiglia somiglia, ma di Eva Kant conserva tutt’al più lo stereotipo della complice qui declinato in 2d, lontana anni luce dal fumetto e dalla rivoluzione femminista che lo stesso personaggio muoverà contro il partner negli anni ’70. Il limite più evidente del film è in effetti il visibilissimo dislivello di autorevolezza tra il fronte antagonista (Celi, Piccoli) e gli altri.
Ultima nota
Arrivati a questo punto, teoricamente, la logica del discorso pretendeva si tirassero le conclusioni. Ma siamo nel 2020, dunque… Ennio Morricone ha composto musica per circa 500 film nello spazio di 5 decenni, ridefinendo in più di un’occasione i canoni dell’architettura sonora di interi generi cinematografici, che oggi suonano come lui voleva suonassero, western su tutti. Altrove, si è “limitato” a riscattare la mediocrità di prodotti di livello decisamente inferiore con quel paio di accordi ariosi che costituiscono poi, nei decenni, l’unica ragione per cui quel tale film di quel tale regista riesce a conservarsi un posto nella memoria collettiva. Diabolik è in questo senso a metà strada. Non il miglior Bava, perchè nella sua vitalità e nel suo disprezzo per le strutture convenzionali il film non riesce a coincidere con l’idea originale del regista. Nemmeno la migliore colonna sonora di Morricone. Eppure, in questo impasto di sonorità psichedeliche, svolazzi jazz e pop più lineare c’è il segno e la capacità di stare contemporaneamente dentro un’epoca, dentro un film e mantenere ugualmente sapore di consuetudine. Sapore caloroso, divertito e vagamente nostalgico. Un mattone di bellezza in un grande edificio di bellezza. Di fronte alla quale ci si toglie il cappello e si dice grazie.
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Cervi era il produttore, non il regista.
[…] disse a proposito di Bava che una caratteristica del tutto italiana che gli era propria consisteva nel fare film memorabili […]