
Fino alle stelle andata e ritorno: la calda estate di “Magic Matthew”
Non vengono dalla pubblicità di un profumo i cinque secondi di video che quest’estate hanno tenuto i cromosomi “X” di tutto il mondo incollati al teleschermo, quelli che ci hanno fatto indugiare sul telecomando giusto un istante in più durante lo zapping: d’altronde, sembrava quasi un crimine tagliare via il finale di quel tuffo, perdersi il momento esatto in cui due marmorei glutei deambulanti finiscono nel mare tropicale con un sonoro splash dopo essersi gettati da un promontorio.
Per quanto potrebbe essere credibile, non c’è dunque lo zampino di Dolce & Gabbana nel trailer di Serenity – L’isola dell inganno, il film con cui il texano Matthew McConaughey riporta la sua tracotante fisicità nelle sale italiane. Se da una parte, dopo la svolta impegnata del 2010, cominciavamo a sentire la mancanza dei balletti alla Magic Mike, dall’altra con Serenity sembra essersi amaramente chiuso un cerchio che riporta il bell’attore ai fasti nefasti di un tempo, con una sceneggiatura studiata per sottolineare le sue doti fisiche più che quelle artistiche. Il suo aspetto di bello e (ormai) dannato torna ad essere elemento portante della trama, arricchendosi soltanto, rispetto al passato, di una nuova consapevolezza: nella fine di questi anni ’10 il fascino aumenta togliendo un po’ di brillantina “bravo-ragazzo” e irrorando il tutto con dosi molto abbondanti di rhum e frasi strascicate.
Un vero peccato insomma dover testimoniare il ritorno al cliché di un attore che riusciva a stregare platee intere (uomini inclusi) spiegando la teoria delle superstringhe e dell’eterno ritorno mentre ripiegava annoiato omini di latta. Anche in quel caso l’alcool ricopriva un ruolo importante come strumento per alleviare le pene di un’anima tormentata, e anche in quel caso (i fruitori delle serie in lingua originale potranno confermare) la cadenza degli Stati del Sud aggiungeva un’aura di mistero e fascino che ha contribuito a fare del personaggio di Rust Cohle e di tutta la prima stagione di True Detective il prodotto deliziosamente iconico che ricordiamo. Se una versione più avventuriera e più paterna di Rustin avrà modo di approfondire il tema della quinta dimensione in Interstellar, a noi basta quella spiegazione a mezza bocca, farcita di pessimismo cosmico, per farci cadere in trappola. Forse è stata tutta quella teoria della relatività sussurata tra l’ora di cena e quella del sonno che ci ha fatto prendere un abbaglio?
Eppure, True Detective non è l’unica prova in cui McConaughey è promosso a pieni voti. Basti pensare a Ron Woodroof, il cowboy omofobo di Dallas Buyers Club, personaggio con cui sfila abilmente un Oscar che sembrava già nelle mani di Leo Di Caprio. Matthew perde più di 20 kg per entrare nei panni del cowboy malato di HIV e, anche se attori come Christian Bale o Tom Hanks ci hanno convinti che sia normale, si tratta sempre di uno sforzo che merita di essere menzionato. Non è certo solo la perdita di peso che lo porta a meritarsi il premio più ambito dello star system hollywoodiano, ma anche un’interpretazione strepitosa carica di introspezione e tensione emotiva. Eccolo con la statuetta tra le mani dunque, giusto riconoscimento alla carriera di un attore il cui talento sembra fluttuare nel tempo, in modo inversamente proporzionale alla sua massa muscolare.
Un Oscar come migliore attore protagonista nel 2014; accostate questo traguardo al ragazzione biondo che nel 2001 salva eroicamente Jennifer Lopez da un pericoloso tacco incastrato in un tombino (Prima o poi mi sposo) e otterrete una storia più incredibile di un wormhole, che lo trasforma in uno degli attori più invidiati di Hollywood. Le imitazioni bonarie ma non troppo dei suoi colleghi, da Matt Damon a Anne Hathaway, ne sono un piccolo indizio.
D’altronde McConaughey non è il tipo da nascondersi dietro un dito: nasce “golden boy” americano, brillante studente e atleta, si evolve prima in sex symbol e poi in attore impegnato e di successo. Lavora con i più noti e acclamati registi americani, confezionando un prezioso scrigno di film, formato all’incirca da tutti i lavori compresi tra il 2011 (The Lincoln Lawyer) e il 2014 (Interstellar), per poi tornare a cullarsi (o almeno sembra) in quella parodia di sé stesso, che lo accompagna, si direbbe, come una maledizione. Narciso, strafottente, altero, è questo il Matthew che tutti conoscono, ma in fondo è comprensibile: la soddisfazione del cinema autoriale non è paragonabile a quella di farsi denunciare dai vicini per aver suonato i bonghi nudo tutta la notte nella tua villa a Malibu.
Quindi, caro Matthew, goditi ancora per un po’ i tuoi bicipiti scalpitanti e le tue notti brave. Se mai ti andrà di cambiare idea e tornare sui tuoi passi saremo qui ad accoglierti a braccia aperte, nel frattempo ci limiteremo a versarci una bibita fresca, accendere il ventilatore e goderci quel che resta dello spettacolo.
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