
Un racconto dal Filmmaker Festival di Milano
Porta Venezia, un altro buio pomeriggio autunnale. Sull’asfalto bagnato si riflettono i colori dei semafori e delle premature luminarie natalizie. Poco lontano dallo shopping sfrenato di corso Buenos Aires si coagulano persone sulla soglia di un palazzo. L’aria è pesante, allo smog milanese si mischia il fumo di una decina di sigarette, tutte accese contemporaneamente. Si è appena conclusa una proiezione allo Spazio Oberdan, sede della Cineteca Italiana che ospita ogni anno, in questo periodo, il Filmmaker Festival.
Un evento unico quello del Filmmaker, arrivato ormai alla 38ª edizione e, pertanto, uno dei festival più annosi fra i sette che insieme compongono il Milano Film Network (MFN). Quest’anno sono ben 82 i titoli presentati, molte anteprime nazionali, fra cui i 9 in lizza per il Concorso internazionale.
È un Cinema difficile da perimetrare quello proposto – e promosso – dal Festival. A sedersi nelle sale che ospitano le proiezioni pare quasi di far un gesto d’aperta rivoluzione: nulla di quello che si vede dentro può trovare spazio fuori. Non si tratta mai di prodotti pensati per un vasto pubblico ma, quasi sempre, di opere concepite per rare visioni elettive, disinteressate ad ogni logica distributiva ma non per questo labili nel significato. All’esibizione, quasi superba, dell’indipendenza produttiva si accompagna una ricerca formale senza limiti; le sette sezioni in cui si articola il Festival lasciano presupporre un’alacre selezione per trattazioni o, quantomeno, per registri espressivi, preconcetto che si frange già sulle prime difficili visioni. Per lo spettatore alle prime armi i criteri selettivi possono parere inattingibili, patrimonio oscuro di una setta di curatori-arconti. Davanti ad un’offerta così differenziata per genere e durata la giuria è stata invece piuttosto trasparente nel conferimento della palma: il film The image you missed, di Donal Foreman, ha vinto il Premio Filmmaker 2018, mentre il Premio della Giuria è stato riconosciuto ex equo a De chaque instant, di Nicolas Philibert, e a Premières solitudes, di Claire Simon. Tutti e tre lungometraggi in grado di gettare sguardi intimissimi su temi sociali.
Con sommo sforzo, al termine di ogni film, è possibile tracciare traiettorie verso altre pregresse visioni, nel tentativo di lasciare nella propria mente sempre meno opere astratte e costruire un reticolo di reciprocità che possa, almeno nelle intenzioni, dare un volto a questo Cinema. L’etichetta “Documentario”, che tanto all’infuori di questo festival finirebbe per richiamare l’idea di un Cinema cervellotico, perde in questo contesto significato; essa si offre in una gamma di sfumature ed epifanie così varia da vanificarne il senso comune. Il fine divulgativo si mostra più apertamente quando la materia ha un sapore delicatamente politico; ne è un fulgido esempio il film d’apertura del Festival: Monrovia, Indiana. Qui il maestro Frederick Wiseman esplora una piccola cittadina del Midwest, i cui ritmi lenti sono scanditi dalle stagionali attività rurali, dalle placide discussioni nei ristoranti e dalle innocue diatribe in consiglio comunale. Il ritratto di una provincia americana ignara e disinteressata, bacino elettorale dell’attuale presidenza. Più esplicito il messaggio in Waldheims Walzer, di Ruth Beckermann, vincitore del Premio della Giuria Giovani: immagini dei media e private raccontano il caso Waldheim e lo scandalo politico scaturito dalla scoperta dei suoi legami con il Nazismo, un evento capace di svelare l’anima più oscura ed auto-assolutoria dell’Austria degli anni ottanta, che, senza troppi sforzi, trova eco in quella attuale e in altre nazioni a lei limitrofe. In Life is but a dream, nella sezione Fuori concorso, Margherita Pescetti getta uno sguardo sardonico sulla vita di una famiglia di coloni in un avamposto israeliano oltre la “Linea verde”: dietro l’apparenza di una vita semplice si nasconde la banalità dell’odio verso i “cugini” palestinesi.
La finzione non è del tutto assente in questo festival ma trova le sue uniche dimostrazioni sempre in ibridazione con il Documentario. Nel mediometraggio Città Giardino, Marco Piccarreda e Gaia Formenti si immaginano un centro di prima accoglienza per migranti minorenni, un luogo dai contorni indefiniti, limbo per i suoi giovani abitanti, attori dolcissimi per il tempo delle riprese che hanno però vissuto sulla pelle l’esperienza della migrazione.
Finalità narrative traspaiono timidamente dai due film francesi sopracitati. De chaque instant, diviso in tre capitoli, segue la formazione di alcuni studenti d’infermieristica di Montreuil, mentre Premières solitudes registra le confidenze giovanili sul rapporto con la famiglia in una scuola superiore nei sobborghi di Parigi. Si è indotti a considerarsi spettatori di finzione davanti al personaggio particolarissimo del Sig. Pierino Aceti, protagonista dell’omonimo film Pierino, di Luca Ferri, ma non è così. Il regista osserva, con occhio didascalico, la quotidianità di Pierino ripetersi patologicamente immutata per tutto un anno; il ritratto affettuoso della passione profonda del pensionato-cinefilo si traduce in un omaggio al Cinema e alla sua storia.
Una ricerca fra i ricordi quella operata da Donal Foreman e dal giovane Demetrio Giacomelli: il primo, vincitore del Festival con The image you missed, intreccia le immagini girate da suo padre, documentarista delle “riots” in Irlanda del Nord, creando uno struggente caleidoscopio di memorie famigliari e storiche; il secondo, vincitore del Premio della Giuria Prospettive 2018 per il suo Un’estate a Milano, lascia fluire racconti passati ed associazioni d’immagini in film dall’evidente registro sperimentale. Di sperimentazione trabocca poi l’opera di Kurt Kren, film-maker avant-garde austriaco, al quale il Festival dedica un’ampia retrospettiva nella Sezione Fuori formato. Se l’iniziazione del neofita al Cinema sperimentale proposta da Kren pare troppo “oltraggiosa”, più concilianti sono i suggerimenti di James Benning: L. Cohen è un piano sequenza ad inquadratura fissa lungo 50 minuti in cui avviene un’unica variazione. Il risultato è pura trance ipnotizzata.
L’esito più naturale di un Cinema completamente libero può essere una semplice poesia visiva. Ne è un virtuoso esempio De Sancto Ambrosio, mediometraggio del giovanissimo Antonio di Biase, vincitore del Premio Movie People.
Più sono le visioni alle quali si assiste più diventa chiaro che la ricerca di un filo conduttore è un’operazione profondamente scorretta nei confronti di questo Cinema: confrontarvisi con alacre speculazione, nell’ossessiva ricerca di individuare nuovi audaci paradigmi teorici e analitici è quanto di più miope. È più proficuo recarsi al Filmmaker con la coscienza che possa mettere in dubbio i propri punti di vista sulla realtà e su quello che avviene nel mondo. Un intimo dialogo tra spettatori e registi senza particolari pretese all’infuori dell’arricchimento reciproco. Osservando con questo spirito si può trovare una spiegazione semplice (e senza commettere troppi equivoci) ad una delle ricorrenze più assidue nei film: l’uso sfrenato di formati diversi (digitale 4K, Super 8, filmati smartphone, VHS, 9.5 mm, colore, bianco/nero e mille altri ancora), che si giustifica con le meno retoriche delle ragioni possibili: gusto estetico e alternatività al nitore contemporaneo. La frequente miscelazione di più formati nello stesso film rispecchia, nel suo arbitrio profanatorio, la natura spuria di tutto il Cinema del festival: un cortocircuito di canoni, un imbastardimento di registri che lascia il segno in chi osserva, che vuole mappare delle tendenze e, forse, segnare il passo per tutto il Cinema contemporaneo.
Fuori dallo Spazio Oberdan, fra il fumo e sotto la pioggia tenue che comincia a cadere, si confondono con i volti accigliati dei critici e dei giornalisti quelli attoniti e perplessi della gente comune. Dopotutto, a guardar bene, non si è nemmeno così in pochi: il pubblico si crea più facilmente se quello che si propone è genuinamente alternativo. Senza le distribuzioni, inoltre, il Festival ha quasi sempre l’esclusiva.
Il personale del Festival slega il cordone in velluto di barriera alla sala: un’altra proiezione sta per iniziare. La gente si riversa nuovamente all’interno, c’è tanta curiosità al Filmmaker.
Si ringrazia Matteo Marelli, giornalista e curatore del Festival.
Le foto sono tratte dalla pagina Facebook del Festival.
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