
The Mandalorian – Capitolo VI – La recensione
La nostra ultima recensione su The Mandalorian, a proposito del Capitolo V, aveva acutamente interpretato le speranze di molti: che la storia del protagonista cominciasse a divenire tale e che mettesse da parte l’impostazione auto-conclusiva. Speranze che Il prigioniero delude.
Fermi tutti però, è davvero un male? Chi scrive era rimasto piacevolmente sorpreso dall’impostazione della seconda puntata, dalla distensione di un ritmo narrativo che permetteva, finalmente, l’esplorazione lenta e godibile della mitologia Star Wars, farcita di riferimenti alla saga classica e con l’introduzione di elementi nuovi. Insomma, non succedeva niente, ma andava bene lo stesso.
Questo meccanismo sembra ora essersi definitivamente incrinato: se la terza puntata ci aveva lasciato con l’immagine di Mando e The Child in fuga dalla Gilda, le ultime tre puntate hanno stravolto gli schemi. La direzione in cui si muove la narrazione ha definitivamente virato dalla prospettiva di una fuga, coerente con le premesse; è invece come se il ritmo erratico fosse scandito soltanto dalle impellenze necessarie alla sopravvivenza o al rifornimento della nave. Che ne è stato della Gilda, degli imperiali superstiti e del misterioso Cliente? Non è forse che l’impostazione abbia iniziato a rivelare, almeno in filigrana, un canovaccio piuttosto rigido? O è più semplicemente una mancanza di inventiva unita alla fretta di confezionare un prodotto? Avrebbero allora dovuto ricordare a Filoni, con Favreau scrittore della serie, che non sta più lavorando a The Clone Wars, che gli episodi non sono tanti e che al pubblico ne avanzano ormai soltanto due prima di cominciare coi bilanci sulla storia.
A ben vedere, l’unica eccezione notevole di The prisoner sta proprio della scrittura, che con la mano di Rick Famuyiwa rompe l’egemonia creativa della coppia Favreau-Filoni. Famuyiwa torna anche alla regia, dopo The Child, e lo possiamo vedere anche per un breve cameo a fine episodio, con Filoni e Deborah Chow a bordo di un X-Wing della Nuova Repubblica. L’episodio, sebbene del tutto interscambiabile con i due precedenti, rimane anch’esso un pregevole esempio della potenza dell’arsenale tecnico e professionale Disney.
L’avvio è fulmineo: in pochi fotogrammi Mando è su una base spaziale ignota, popolata da mercenari a cui chiede un asilo che gli costerà una nuova missione. Nell’arco di due battute si erigono le impalcature del più classico degli heist movie. La vecchia conoscenza Ranzar (Mark Boone Jr.) ringhia «It’s a five-person job. I got four», che, per non cambiare universo, suona molto come il fu-meme «What about a job? A Big-shot gangster is putting toghether a crew…» dello sventuratissimo Solo, a Star Wars story. Mando è imperscrutabile ma remissivo, e per fortuna toppa la line «You son of a b**ch, i’m in». Segue spiegazione del colpo: far evadere un detenuto da una prigione della Nuova Repubblica grazie alla Razor Crest, nave di Mando che, essendo di epoca pre-imperiale, è un fantasma per i radar nemici. Poi classica carrellata di presentazioni: un ex-tiratore scelto dell’Impero (con annessa inside-joke sulla mira degli assaltatori), un devaroniano tutto muscoli, un’irritantissima twi’lek maestra di coltelli e vecchia fiamma di Mando, e un droide pilota, il più carismatico della cricca… il che è tutto dire.
Lo svolgimento del colpo è poi semplice, esattamente come l’intreccio: gli highlights sono i combattimenti e lo sfoggio dell’astuzia e dei gadget di Mando. Stuzzica la scelta registica, durante la caccia di Mando, di adottare il punto di vista della preda, con la tensione che trova l’acme nello scintillio intermittente dell’armatura alle spalle di Mayfeld; effetto suscitato da evidenti reminiscenze horror, e non da particolari ritmi ascendenti.

Scarsi gli sviluppi di Mando, che dimostra ancora una volta la sua inconfutabile superiorità morale rispetto agli altri personaggi, un attributo forse troppo eroico per un cacciatore di taglie. Da un punto di vista scenografico, poi, la palese artificiosità delle ambientazioni interne stride con la bellezza degli spazi aperti a cui la serie ci aveva abituato; altra nota di demerito spetta al trucco sui twi’lek, che fa molto trilogia originale.
Tutti i personaggi, tranne Mando, rimangono macchiette, ed è forse una fortuna che la loro fine nella saga coincida con quella dell’episodio, esattamente com’è stato per altri della serie. Tutti loro, di varia estrazione e razza, concorrono con droidi, pianeti e tribù all’espansione sregolata dell’universo Star Wars. Siamo appena nell’Orlo Esterno, e già le sue proporzioni paiono sfocate. L’epicità di una saga non si costruisce allargando continuamente il campo dell’azione, tendendo a infinito, ma esplorandone i dettagli e lo sotto-trame.
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