
Park Chan-wook e la vendetta – Inventarsi una trilogia
Viene spontaneo, cercando di mettere ordine nel corpus di un autore, razionalizzare per gruppi tematici, o, in altre parole, creare una serie di logie per suddividere la sua produzione in diverse fasi creative. Si pensi al regista danese Lars Von Trier, e a come la sua filmografia venga letta nei termini di un susseguirsi di trilogie. Spesso accade, però, che questa suddivisione in trilogie non trovi conferma – né, peraltro, smentita – nelle parole dell’autore. È dunque lecito tranciare una carriera artistica in stadi indipendenti e fini a sé stessi? Per trovare una risposta a questa domanda, concentriamoci sul caso del cineasta coreano Park Chan-wook e dei suoi film conosciuti comunemente come Trilogia della Vendetta.
Le tre pellicole in questione – Mr. Vendetta (Boksuneun naui geot, 2002), Old Boy (Oldeuboi, 2003), e Lady Vendetta (Chinjeolhan geumjassi, 2005) – vedono, effettivamente, la presenza di un esorbitante numero di intrighi, doppiogiochismo, e spargimenti di sangue. Tutti gli atti efferati messi in scena da Park sono, inoltre, riconducibili a eventi accaduti nel passato, misfatti e offese che chiedono un compenso cruento nel presente. Da qui, e non da espliciti termini dei titoli coreani né per dichiarazioni del regista, fiorisce il concetto di vendetta quale minimo comune multiplo alla base di questa “trilogia”.
Tanto l’istituzione a posteriori di una trilogia quanto la traduzione internazionale dei titoli vanno così a sovrapporre un’interpretazione obbligata ai lavori di Park, portando il pubblico a rispondere a una prima visione con le stesse strategie ermeneutiche di un giallo o thriller. Si vuole trovare il perpetratore della vendetta. Come in un poliziesco à la Signora in giallo, si insegue la chiave del mistero, il segreto del personaggio centrale a cui ci si affeziona pur sapendolo omicida, torturatore, ricattatore. Ingaggiando una corsa contro il tempo, si tenta di risolvere il mistero prima che il regista stesso ci fornisca la soluzione portando la trama a compimento.
Immaginiamo, invece, ci si avvicini diversamente, e con occhi vergini dal sentito dire, alla visione di queste tre pellicole. Si sarà allora incuriositi dalle saturazioni acquose che la fotografia del regista coreano imprime su negativo 35mm, fotografia diretta in due su tre casi da Chung-hoon Chung, il cui nome (questa è una chicca) figura anche tra i credits del recente Zombieland – Doppio colpo. Si sarà piacevolmente disorientati dalle rivoluzioni di regia e montaggio, che guidano gli spettatori come solo una corsa sulle montagne russe sa fare: tenendoli ben saldi, ma dando loro l’impressione di poter precipitare da un momento all’altro.
Tra tutti, si sarà entusiasmati e portati sull’orlo di un’estatica crisi di nervi da Old Boy e dal suo protagonista-prigioniero Oh Dae-su (Min-sik Choi), mentre Lady Vendetta confonderà, metterà a dura prova la pazienza intellettuale, e farà amare – e allo stesso tempo odiare – la sua eroina Lee Geum-ja (Lee Yeong-ae), santa peccatrice come solo i migliori personaggi Dostojevskijani sanno essere. Mr. Vendetta, invece, lascerà in ricordo difficilmente superabili sequenze di crudezza carnale, oltre che, ovviamente, un certo prurito alle mani per la voglia di tingersi i capelli dello stesso verde elettrico dell’innocente Ryu (Shin Ha-kyun), pronto a trasformarsi per il bene di coloro che ama in killer appassionato.
I lavori di Park, insomma, lasceranno esteticamente soddisfatti. Ma, insieme, inquieti, e l’inquietudine non è di solito compresa nel prezzo dei polizieschi che passano sulla reti nazionali la domenica pomeriggio. L’inquietudine, si direbbe, è un lusso, un tributo da pattuire di volta in volta con il singolo spettatore. E il cineasta coreano lavora abilmente per forzare il suo obbligo a rendere, a ogni visione, questo tributo. Guardando Mr. Vendetta, Old Boy, e Lady Vendetta prescindendo dai titoli, probabilmente non si vorrebbe categorizzare Park come (un mero) cucitore di vendette.
Al pari dei migliori noir della tradizione occidentale – si pensi alle opere di Otto Preminger, Alfred Hitchcock, o al revival polanskiano di Chinatown (1974) – i tre film dell’autore coreano avviano trame di comodo per arrivare a mettere sotto accusa tanto una società quanto la natura umana in toto. Allo stesso modo in cui Psycho (1960) non è (solo) la storia dell’omicidio di Marion Crane (Janet Leigh), così Park attende, torchia coscienze e personaggi, chiudendo su inquadrature finali insopportabilmente dense di significato.
Ed è proprio mentre l’ultima inquadratura sosta sullo schermo che si realizza quanto la ricerca del vendicatore, quanto lo sforzo nel comprenderne le motivazioni sarebbero stato vano. La nozione della vendetta è poco più di una metafora, stilema estetico ma anche culturale per mettere a nudo i processi dell’animo umano, le sue associazioni retoriche, e la sua tendenza a comprendersi solo sulle premesse di narrazioni personali. Tutti, a turno, sono vendicatori. Eppure nessuno, nell’incapacità di limitarsi agli scopi personali del momento, lo è fino in fondo. Gli schemi tentacolari che Park mette insieme non sono pensati per una comprensione scolastica da penna e righello.
Come mai, allora, si cede tanto volentieri all’inscatolamento di carriere autoriali in gruppi, sottogruppi, ramificazioni? Come mostrato dai film di Park, forse è perché, in fondo, una chiara coerenza è sempre più rassicurante di una selva di sentieri incrociati. Non solo quando si tratta della trama di un’opera; ma anche, e soprattutto, quando si sente il bisogno di addentrarsi nella mente del creatore e capire qual è l’elemento di contingenza che, in parole sartriane, fa esistere piuttosto che non-esistere quell’opera stessa.
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