
BoJack Horseman ha chiuso – Il modello di Mad Men e il dramma collettivo
Scrivo a distanza di più di due mesi dal rilascio su Netflix della seconda parte della sesta stagione di BoJack Horseman. Non è una recensione, forse neanche un approfondimento, piuttosto: l’elaborazione di una fine.
L’articolo contiene numerosi spoiler.
Aspettando la seconda parte conclusiva, si speculererà continuamente su quale possa essere la fine di BoJack – e io credo che, sulla base di un parallelo più volte suggerito, tutti i personaggi della serie troveranno una sistemazione, eccetto BoJack, alla maniera del finale di Mad Man, [SPOILER] quando Don Draper dovrebbe ritirarsi, riposare, uscire dal cerchio infernale dell’advertising ma alla fine realizza, ineccepibilmente, la nuova pubblicità della Coca Cola.
Nella profezia che ho tentato di abbozzare a fine ottobre non ho forse tenuto conto di un fatto: BoJack Horseman ha chiuso contro il volere di Raphael Bob-Waksberg. Non c’è da tifare per una surrealissima emancipazione della creatura dal creatore, piuttosto assistere alle solite, forse inintellegibili, ragioni produttive. Mi sono fatto un’idea piuttosto chiara: se la serie si chiuse tutto sommato ‘bene’ (e con ‘bene’ intendo una conquistata dissolvenza), non sembrava volesse. Mi spiego: le puntate quattordici e quindici sono dei finali anticipati, all’insegna il primo della damnatio memoriae – Angela Diaz, produttrice, cancella la presenza di BoJack da Horsin’ Around, l’unico show ‘intoccabile’, il punto di ritorno fisso ad ogni pensiero ossessivo, the paradise lost -; il secondo di una lunga e liminare conversazione coi morti, che per natura e per topos prelude alla morte.
La repentina palingenesi dell’ultima puntata – dopo il lungo precipitare di BoJack a causa, ancora, del suo passato – ha odore di autotradimento. Nella profezia immaginavo, servendomi del canovaccio di Mad Men, una finta redenzione di BoJack, una contigua ricaduta, infine una sistemazione contemporanea e quasi da commedia di tutti gli altri personaggi principali, che avrebbe lasciato fuori il protagonista. Proprio perché il capolavoro di Matthew Weiner così si concludeva. Sul parallelo tra le due serie, è molto chiaro il seguente video, che ruota giustamente sulla proporzione Don : BoJack = Peggy : Diane. Non dimentichiamo le citazioni, verbali e visive, palesi come quella illustrata nel seguente collage prelevato da reddit, che colleziona immagini della quarta stagione da un lato, dell’ultima dall’altro.
Qual è il punto? Il punto è che la profezia si avvera del tutto, mancando solo di far precipitare BoJack alla sua vita solita, in una spirale senza fine. Degnissimo finale, sia chiaro, però inverosimile stando a queste premesse. Vorrei individuare proprio nella frattura tra quindicesima e sedicesima puntata uno spazio di potenziale narrativo, una settima stagione (quante ne ha Mad Men?), un colpo di reni almeno di quattro puntate, che avrebbero potuto confermare l’antigrafo oppure sottolineare il distacco. Tutte le stagioni, infatti, ne hanno dieci, l’ultima sedici.
Mettendo in atto questo ragionamento, col rilievo pedantissimo di una ‘lacuna’ narrativa, ho capito di stare sbagliando e che la fine, questa fine, non riguardi la critica ma esclusivamente la persona. Col tempo mi sono illuso di poter giocare all’esegeta con BoJack Horseman perché mi si palesava la sua complessità, era un oggetto di studio succulento. Ho dato una chiave stilistica delle prime quattro stagioni sul nostro quarto cartaceo, del novembre 2017, ho lanciato un’invettiva sulla quinta, e quindi, come già detto, esercitato le mie skill divinatorie sulla sesta. E potrei continuare! Rilevando, per esempio, quanto sia fondante la metafora meta-critica, in quest’ultima seconda parte, dell’insegnamento come maieutica e non come trapasso unilaterale; quanto importante sia nel discorso satirico la pernacchia finale a Hollywood storpiata, ancora!, Hollywoob, la quale ci ricorda delle logiche insane del giornalismo USA, compreso di blog; oppure che immagine di serena accusa della performance lavorativa sia la relazione fra Judah e Princess Carolyne; che la pausa onirica è ancora, dopo aver segnato in pratica ogni stagione, il punto di svolta, forse in qualità di estensione innaturale del tempo (e così la tavola imbandita mette in atto contrappassi fisici e psicologici, che lo spettacolo continui!), e che il tempo sia sinonimo di maternità; o ancora (e chiudo) di come non si arresti la sperimentazione del linguaggio cartonato, pensando soprattutto alle linee di Todd, vero espressionista.
Adesso si palesa invece per BoJack Horseman la natura di dramma collettivo. Lo streaming che decreterebbe la morte del cinema prima e del focolare televisivo poi (deo gratias) modifica o trascende una esperienza assolutamente individuale in una collettiva, tramuta una relazione biunivoca in una connessione, pure attiva solo in background. Ed è il lavoro, lo dico con senno tautologico, dell’opera d’arte. Un’epica delle reazioni, che informa lo spettatore diventato pubblico non – sia mai! – di “empatia” o di “affetto” (mi sono affezionato a quel personaggio, anzi a questo) ma di un linguaggio e di un discorso, un linguaggio-sistema e un discorso complesso.
Il finale (e il climax ascendente che lo ha preparato) non andrebbe, non adesso, letto con strumentazione critica, filologica o semiotica e via discorrendo, ma con disponibilità emotiva individuale. Ed è uno dei finali più riusciti, tra quelli di cui ho immediata memoria. Il rapporto tra Diane e BoJack, fulcro della serie, sempre in odore di riconciliazione, dà le coordinate invece, assolutamente motivate, di una insanabile rottura (sta qui forse un’ulteriore metafora del rapporto tra serie e spettatore). La strabiliante l’inquadratura fissa che chiude – strabiliante e non ho paura di dire rivoluzionaria, in un cartone – non ha altra intuizione che dare o presentare uno spazio di pace apparente, di intuizione di felicità, le uniche forse possibili (life is a bitch…), contro il dolore durato sei stagioni.
But it’s a nice night, uh? – Yeah. This is nice.
Ed è chiaro, persino in un approccio “professionale”, il valore (o disvalore) di educazione sentimentale: nei risultati no, nei processi!
Siamo ciò che ci manca, direbbe qualcuno, e adesso ciò che manca è BoJack Horseman.
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[…] Tradimento come tema, dunque: vero, ma a conclusione della serie si assiste a uno slittamento da tema a metodo: nell’ultima puntata (è coinvolta l’intera stagione) tutti i personaggi sembrano chiudere il cerchio delle loro esistenze “seriali”, e così anche Draper, alla fine, pare, cosciente della finzione che ha portato avanti. In realtà, ma non si dica altro, il gioco metodico di Weiner ha qui una prima attestazione: il cortocircuito tradisce il pubblico fino all’ultimo appagato e poi, drasticamente, disatteso. (Ho studiato la riproposizione di questo schema nel finale di BoJack Horseman, nella recensione all’ultima stagione). […]
[…] all’attrice – e, grazie a Netflix, autrice – Alison Brie, già protagonista di BoJack Horseman e tra i personaggi principali di Mad Men, per lungo tempo su Netflix e ora su Prime Video. Quindi […]