
BoJack Horseman 5 – Todd dove cazzo sei e altre questioni
[L’articolo contiene numerosi spoiler].
In un mio intervento cartaceo (Speciale Twin Peaks, del novembre 2017) ho sostenuto che «a differenza della maggior parte delle serie TV, BoJack Horseman migliora col tempo, tanto che la quarta stagione mi è sembrata la più interessante anche a livello formale». Sarò sincero e spiattello qui immediatamente la palinodia: la quinta stagione di BoJack fa qualche passo indietro, dunque non migliora col tempo, soprattutto a livello formale (in merito alla forma narrativa). Sia chiaro: non si cada nell’errore di voler sempre cercare un andamento evolutivo o involutivo! Le zone d’ombra s’alternano alle zone di luce. Ad ogni modo, c’eravamo lasciati con uno straziante season finale, sul monologo (ho assertito metapoetico in ibid.) di Flip McVicker, imprestato della voce di Rami Malek nell’originale:
La storia che sto per raccontare riguarda il tempo, ed è tempo che la storia venga raccontata. Parla del detective John Philbert, un uomo di un’altra epoca, ma che ora si trova in un’epoca nuova […] in un’epoca che non capisce. Un’epoca in cui egli è solo. Forse tutto questo tempo è stato solo.
E all’esordio della quinta stagione, ex abrupto, ci troviamo nel set di uno schizzato nevrotico misogino alcolista, il che andrebbe anche bene se la sua serie non fosse mostrata nei termini di un groviglio irreale di robaccia, frasi rubate, stereotipi, scambi di persona, ingenue alternanze voce interiore/esteriore eccetera, scene prive di qualsiasi motivazione (quanti cavalli servono a svitare una lampadina? Uno, che gira su se stesso, nudo). E non sono giudizi miei, ma ciò che trapela dalla selezione narrativa, cioè è proprio la conduzione della narrazione a rivelare un giudizio aprioristico dell’autore sul prodotto seriale del proprio personaggio: certo in funzione comico-parodica, che è l’istanza primaria o una delle istanze primarie della serie, qui non approfondita perché evidente – ad esempio nell’episodio BoJack il femminista, con critica a 365°, per citare un intellettuale lombardo, verso tutta l’accademia americana e, forse, il movimento Metoo. Mi spiego brevemente: in primis, attraverso gli squarci delle riprese, la serie sembra assolutamente una baggianata di secondissimo livello (e vuole esserlo), come già detto, tant’è che Princess sa di dover ipermotivare le scelte del “suo” Flip e tant’è che lo stesso BoJack ne è tormentato, e gira per il set cercando di persuadere Flip a cambiare almeno qualche dettaglio; in secundis, la produzione è di una tristissima azienda multimilionaria che a quanto pare detiene un’unica app “What time is right now?”, per gente che non sa di avere incorporato l’orologio digitale nel telefono (e se non sbaglio – dunque frecciatina indiretta – lo stesso Flip la utilizza fin da subito). Sorvolando il fatto che l’idea è presa a piene mani dal bellissimo romanzo di Tapinar, L’istituto per la regolazione degli orologi, mi chiedo quanto un elemento del genere possa funzionare. E rispondo: in breve Todd ne diventa direttore esecutivo (?) o cosa, per merito e perché il resto della compagnia è gestita surrealmente da una manica di deficienti. Tutto per quel climax davvero inceppato con il robot del sesso che sappiamo. E tra le altre cose non mi sembra un filone narrativo così rilevante da servire da contraltare a quello di BoJack. Soprattuto per l’assenza di contatto che hanno i due personaggi (esclusa per motivi analettici è la puntata di Halloween). Dunque, oserei dire, una devalutazione di fondo della necessità del filone narrativo principale, e della sua possibilità di esistenza e di pertinenza (tra l’altro tradendo le aspettative di un finale di quarta direi potentissimo), un elemento che in realtà potrebbe coincidere con la filosofia della serie, cioè tutto ciò è reale ma potrebbe non esserlo. Il tutto sottolineato anche perché la “crisi” della serie avviene proprio in coincidenza del crollo della società, a causa soprattutto dello scandalo sessuale del bot del sesso (ancora un riferimento alla questione epocale Weinstein-Metoo). Ma andiamo oltre.
BoJack Horseman, per la densità del filo narrativo principale, necessita di controaltari di diversa (non dico minore) intensità. Non è affatto cosa nuova, da sempre (si pensi a Scrubs, per esempio) le serie comico-drammatiche rinunciano alla narrazione unica per la plurima, in funzione però di una gerarchizzazione delle forme, del tono e dei contenuti. Ebbene, questi “diversivi” qui, nella quinta stagione, non mi sembrano solidi quanto precedentemente. Se le vette si raggiungono proprio in luogo di questi (ep. 2, I giorni da cane sono finiti; ep. 8, Le ragazze di Mr. Peanutbutter), il che potrebbe essere un’anomalia, anche il fondo si raggiunge allo stesso modo: l’ep. 3, La storia di Amelia Earhart, è forse, personalmente il peggiore, a fatica condotto a conclusione. L’intento sembra quello di approfondire ulteriormente il personaggio della gatta in senso parallelo alla stagione precedente (ep. 9, Ruthie) senza però aggiungere davvero nulla, eccetto il rapporto con la madre e la consegna dell’“amuleto”, la collana già al centro della narrazione. E l’ep. 9, Una storia antica, nel quale Hollyhock torna da BoJack, con una nevrosi sicuramente giustificata ma del tutto improvvisa, comparsa tardissimo diegeticamente parlando e perciò apparentemente immotivata. Di più: la sua presenza ha peso zero nella conduzione dell’episodio, se non per il casus belli (nevrotico) e per la patetica scena della casa di Gina, tra l’altro “convinta” con pochissimo a diventare la ragazza di BoJack e con un’indifferenza del protagonista del tutto paradossale (se si contano i segnali precedenti e successivi di un interessamento profondo).
Comunque, abbiamo detto del mancato bilanciamento fra la storia principale e le subalterne. Aggiungiamo la messa in disparte parziale di molti personaggi, Todd su tutti, Hollyhock e anche Diane e Peanutbutter, presenti ma assenti in merito al rapporto con Bojack, con recupero soltanto finale.
Una seconda questione riguarda la forma. Nella terza e nella quarta stagione la forza risiede nel continuo switch di modalità narrative. Ho scritto nell’articolo citato: «si è parlato di abilità nel trovare risorse narrative soprattutto perché la serie, in esordio, sembra progettare la sua immediata fine. Non che manchi l’originalità, ma quel Leitmotiv di malinconia e riflessione profonda sulla vita irrigidisce tutti i tentativi di sviluppo. È così che dalla terza stagione la serie comincia a variare il ritmo e a sfruttare un topos proprio delle sit-com americane: le puntate posseggono un colore preciso, perché si tratta fondamentalmente di retorica». Ebbene, qui gli esempi sono tre, il citato episodio di Halloween che impone nostalgicamente la chiusura di un cerchio; il già pop ep. 6: Churro gratis, bellissimo monologo di Bojack al funerale della madre (che trovo assurdo morta così, ma un amico mi dice: è coerente! Perché BoJack ha sempre considerato pochissimo importante sua madre. Può darsi, non so) con unica pecca la chiusura telefonata; e infine Interno. Sotto., ep. 7, con modificazione addirittura dell’intro musicale con protagonista una Zebra, con Flip delfinizzato (e il nome da sempre ha fatto pensare a un delfino), Todd ridotto alla sua mano e Carolyne a una nebulosa: l’espediente è il dialogo fra una psicoterapeuta e una risolutrice di controversie private (?) a cena, con l’obbligo di mantenere il segreto professionale. Qui la coercizione legislativa spinge all’immaginazione e modella il reale. Un altro intro geneticamente modificato è quello dell’ep. 11, con parodia direi abbastanza fedele io dico del caro Nic di True Detective, ma anche di tanti altri polizieschi.
Aggiunti ai due episodi monografici, la varietà narrativa è sfruttata per cinque episodi su dodici, quando la percentuale sfiorava la totalità nelle due stagioni precedenti. E non sarebbe da considerare un fatto negativo in assoluto ma forse in relazione all’inconclusione della stagione precedente, che forse abbisognava di una continuazione negli stessi termini. Le puntate della seconda metà della quinta accelerano, dimenticandosi dell’andamento inspiegabilmente moderato delle antecedenti, fra l’altro puntando tutto sull’ep. 11 con ribaltamento delle capacità canore di Gina. Chi non l’ha trovato soltanto (detto provocatoriamente) una riproposizione della puntata (splendida) sulla morte di Sara Lynn? Lì droga qui droga, fra l’altro con la ricomparsa del dottore?
Per di più quanto è stata annunciata la sovrapposizione dei personaggi Bojack-Philbert? Chi fosse abituato (chi fosse un abituale divoratore di serie) l’ha per certo compreso quasi subito. A partire dall’identità fra set e abitazione, identità di partner sessuali, poi medesimi vestiti mai dismessi, infine coincidenza (e forse qui il vero elemento di grande rilievo) memoriale, cioè l’intromissione tramite Diane di un ricordo di BoJack anche nel passato di Philbert?
Concludendo davvero: Bob-nomeastruso ci ha abituati a una serie spesso commovente, cioè emotiva, non banalmente parlando ma ex imo corde. Insomma: trovo che il momento più interessante da questo punto di vista sia la sbronza condivisa fra BoJack e Diane, durante la quale il fantasma del sesso aleggia e solletica lo spettatore perché la loro è la storia di un amore non impossibile ma possibilissimo eppure sempre lontano. Mentre ho trovato privo di significato il rapporto (forse necessario a livello di intreccio) tra Peanut e Pickles, con climax ascendente.
Ma niente più. Le critiche mosse sorgono in virtù di un dato di fatto: la priorità della serie su molte altre, cioè il suo valore e quindi l’esposizione propria delle cose di valore alla critica. Sebbene, dunque, ci siano dei difetti, il tutto sembra possedere la logica della transizione, quando (o se) il disintossicamento verrà preso a congegno narrativo o parziale o totale, quando sarà una stagione intera in absentia del suo protagonista, quando si rivelerà la sua non necessità alle vite di altri eccetera, la serie riprenderà la corsa. Ma di questo possiamo solo immaginare.
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