
Star Wars – L’ascesa di Skywalker | Si spengono le stelle della galassia lontana lontana
E così il tempo è giunto. Le spade laser vengono deposte, le pistole smettono di sparare, i segreti tornano a galla colpendo come onde assassine i loro ignari custodi. Con L’ascesa di Skywalker, la Forza in tutte le sue sfumature ritorna a scorrere in equilibrio, mentre il sipario si chiude sul mondo di Star Wars.
Stringendo tra le mani il difficile testimone lasciatogli da Rian Johnson per ritornare là dove tutto era (ri)cominciato, J.J. Abrams (già regista de Il risveglio della forza) sviluppa senza rischi un intreccio che si fa reduplicazione e riflesso perfetto di quel mondo che nel 1977 con Una nuova speranza ha lanciato in orbita il proprio pubblico tra i mondi di “una galassia lontana lontana”.
Sente il peso delle proprie responsabilità Abrams. Come pesanti macigni, percepisce uno a uno gli sguardi di spettatori curiosi con cui deve fare i conti a ogni ciak. Tra apici di ingegno e raccordi non sempre riusciti, è tangibile la pressione che ammanta il regista di Lost durante l’intera produzione de L’ascesa di Skywalker. Dopotutto, quello a cui è stato chiamato non è un compito facile da realizzare: è lui che deve concludere una saga non sua, osannata e analizzata da milioni di fan esitanti e trepidanti. Basta poco per compiere un passo falso, pronto a essere notato da una folte schiera di attenti sguardi indagatori avvolti dal buio della sala. E qualche passo falso nel corso de L’ascesa di Skywalker Abrams lo compie.
Dal canto suo il cineasta può vantare una spinta immaginifica che lo porta a concepire mondi e metodi di ripresa dinamici, capaci di colmare falle lasciate da un improvviso indebolimento della sceneggiatura.
Altalena di emozioni fatta di bocche che si spalancano meravigliate e smorfie poco convinte digrignate e contorte, il lato oscuro e quello chiaro della Forza si impadroniscono dello spettatore, riproponendo in scala personale quello scontro interiore che dilania e ossessiona Rey (una ancora ottima Daisy Ridley) sullo schermo. Attratti da ciò che vediamo, ce ne discostiamo immediatamente, incapaci di accettare che quelle che scorrono sullo schermo siano le immagini che sanciranno la parola “fine” all’universo di Star Wars.
Eppure, in questa riproposizione fedele del canovaccio su cui ha tratto origine la trilogia originale, spicca ancor di più la regia adrenalinica, angolata, talvolta introspettiva di J.J. Abrams. Per molti non basteranno le riprese aeree, le carrellate, le veloci panoramiche o le superfici riflettenti ombre che giacevano negli antri oscuri dell’anima, tornate a galla per impossessarsi della luce; ci voleva più coraggio, più inventiva (anche se, come ci ricorda il caso di Rian Johnson e del suo Gli ultimi Jedi, assecondare i fan con plot-twist sorprendenti può risultare ugualmente un’arma a doppio taglio). Ciononostante, al regista va dato comunque l’onore di aver seminato il germe di una nuova speranza, un riavvicinamento, o un approccio nuovo per generazioni di appassionati di Star Wars della prima o ultima ora.
Per tenere sulle spalle, come titani, le colonne portanti di un tempio della memoria collettiva come quello di Star Wars, non basta essere buoni interpreti; ad ardere il cuore di ogni singolo attore ci vuole il sacro fuoco dell’arte recitativa. Ogni performance è un tassello imprescindibile alla buona riuscita dell’opera dal punto di vista dell’affezionamento spettatoriale. Droidi (BB-8, C- 3PO, qui più esilarante che mai, R2-D2), vecchi amici ritornati da un passato lontano (Lando Calrissian) e ritorni struggenti (anche se un po’ prevedibili) prendono per mano la flotta della Resistenza per affrontare un’ultima volta le vesti funeree del Primo Ordine.
Protagonista di un crescendo visivo che porterà all’atto conclusivo dal sapore classico del puro Guerre Stellari, al centro delle due fazioni si illumina d’immenso, in un rosso febbrile e colmo di contrastanti emozioni, il volto di Adam Driver. Dopo Storia di un matrimonio (qui la nostra recensione), non c’erano più dubbi; eppure, il suo Kylo Ren fa ritorno nella galassia lontana lontana per ribadircelo ancora una volta: è lui, questo ragazzo di un metro e novanta, la nuova speranza del cinema hollywoodiano. Lo si ritrova in ogni smorfia, ogni minima espressione di dolore o rassegnazione: Kylo Ren/Ben Solo è il punto gravitazionale dello sguardo spettatoriale; una giostra di emozioni che trascina il pubblico illuminato dalla forza più accecante al buio più nefasto dell’animo umano. Se c’è dunque un vincitore di queste guerre stellari (grazie anche alla presenza di grandi e talentuosi comprimari del calibro di Oscar Isaac), è lui: Adam Driver.
Il resto è una corsa a perdifiato e un volo ipersonico a bordo del Millennium Falcon. Starà al pubblico decidere se lasciarsi prendere dallo sconforto o farsi pervadere dall’adrenalina più pura e fanciullesca. E che la Forza sia – per l’ultima volta – con voi.
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