
Il metodo Kominsky, un allestimento dei rapporti umani
Circa un anno fa su Netflix è stato rilasciato Il metodo Kominsky di Chuck Lorre (per intenderci, il creatore di The Big Bang Theory). In sordina si potrebbe dire, solo per poco: difatti stravince i Golden Globe 2019 e riceve un’accoglienza positiva sia dal pubblico sia dalla critica. Noi di Birdmen l’abbiamo inserita tra le migliori serie del 2018.
Tra prima e seconda stagione
Nella recensione alla prima stagione, si è sottolineato come la stella binaria della serie fosse solo ed esclusivamente la coppia Sandy Kominsky-Norman Newlander (Michael Douglas e Alan Arkin), in virtù soprattutto del fulcro-tema portante della morte di Eileen Newlander e, coerentemente, della malattia, e quindi dell’aging, dell’invecchiamento. E le figure secondarie rimanessero in periferia della narrazione:
Se lo scioglimento di questi due nodi, della morte e della malattia, è il nucleo centrale, non si può dire esista un esterno, una perifericità nella serie. Sebbene la figlia di Norman, Phoebe, sia Lisa Edelstein, la Caddy di Dr. House, il suo ruolo è minimo, assolutamente ancillare, occasionalmente utile per qualche escursione del duetto comico-tragico. E così le altre due figure femminili, veri e propri satelliti artificiali: Lisa (Nancy Travis) e Mindy Kominsky (Sarah Baker) hanno funzioni correttive nei confronti dei protagonisti, al massimo sono anche qui piccoli congegni narrativi, che con poche parole, una rivelazione, un gesto, piegano la monotonia (la ripetitività e la quotidianità) della trama.
Cosa cambia: il filo decentrato
In realtà, molte cose cambiano, solo in parte imprevedibilmente. In questa seconda stagione il “superamento” (una presa di consapevolezza) del trauma ha creato uno vuoto narrativo importante, per cui, soprattutto all’inizio, si ha l’impressione di un filo decentrato, di una pacatezza nuova, di un racconto normale, più aderente alla piattezza della vita “reale”. Soprattutto, se è vero che l’invecchiamento e la malattia rimangono al centro (concentrando sul tema i migliori momenti comici), a contendere il podio c’è il tema delle relazioni, sentimentali o parentali: per questo motivo, le figure “subalterne” Phoebe e Mindy, figlie rispettivamente di Norman e Sandy, conquistano la ribalta.
Phoebe
[Spoiler] Phoebe è impegnata nella riconciliazione col padre Norman e con la madre Eileen, che si presentifica a entrambi e con fare quasi magico ne influenza (sempre come proiezione psicologica) le azioni, per quanto possibile. Norman si rende disponibile alla riconciliazione, però, soprattutto per l’intervento di Madelyn (Jane Seymour), vecchia-nuova fiamma.
Mindy
[Spoiler] Mindy ha un compagno, Martin (un Paul Reiser impegnato anche in Stranger Things) della stessa età del padre. Il cortocircuito è totale, poiché mette in campo anche una certa vulgata ipocrisia nei rapporti: nella società americana un uomo anziano che si relaziona con una donna giovane è accettato, il contrario è pregiudiziosamente contestato o comunque ritenuto anormale. Cortocircuito totale, certo, ma utile alla rimessa in carreggiata. Il personaggio di Lisa, a conclusione, è quello ancora meno approfondito.
Vitalità e mortalità, sul tema principale
L’allestimento di Lorre è però, dopotutto, un allestimento spietato: è vero che c’è una ricostruzione, soprattutto relazionale, e un rimescolamento gerarchico, ma è a un passo dalla fine, cioè a un passo dalla de-significazione, perciò i conti sono sempre in tasca della coppia di amici, Sandy e Norman. Il miglioramento delle linee caratteriali di alcuni personaggi indica soprattutto che per i due protagonisti aleggia uno spettro, ed è uno spettro imparentato con la solitudine, per questo vengono progressivamente o abbandonati i luoghi o popolati, perché l’assenza è ingestibile al pari di una presenza che espone senza riguardi la propria vitalità. Vitalità, anche “urgenza” o “spontaneità”, pure – diciamolo – “ingenuità” (bonariamente intesa) che è l’elemento portante di un certo tipo di filosofia della recitazione, altro clou destinato a piegarsi su sé stesso e render critici diversi episodi. Vitalità che, nel caso di Norman, coincide con il tentativo della ricerca di un “senso”, anche uno qualunque, [Spoiler] persino in scientology.
Pur sempre una commedia esilarante
Il metodo Kominsky però è sostanzialmente una comedy, quasi una sit-com, ed è bene non dimenticarlo: gli ambienti sono molteplici e mancano le risate fuoricampo ma i tempi e la sostanza quasi-esclusivamente dialogica delle puntate indicano un asservimento all’ironia, al comico e alla battuta, cioè la necessità di far ridere il pubblico. E infatti la serie è esilarante. Il tragico messo in mostra nella serie è al punto finale del cerchio, per cui si sovrappone con l’inizio della circolarità, il comico.
Altra differenza con la prima stagione è il finale: niente spoiler, semplicemente mentre per la prima sequenza narrativa i fatti potevano sembrare autoconclusivi, qui la proiezione è tutta futura – in una sorta di conato vitale – ed è perciò difficile fare adesso i conti, se non scorretto metodologicamente. Il trailer della seconda stagione sia di buon auspicio per il rinnovo!
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[…] recuperato più tardi, rispetto a molti spettatori, non avendomi convinto la prima puntata. Oppure Il Metodo Kominsky, che è esilarante ma che non vedrà più Alan Arkin tra i protagonisti della terza stagione, per […]
[…] del genere verso il dramedy, con tante nuove soluzioni. Qui la recensione alla prima stagione. Qui la recensione alla seconda stagione. D. […]