
Beau ha paura – Visioni horror tra fluidi e parodie
Memento mori. Ricordati che devi… nascere. Ha quasi del religioso il prologo di Beau ha paura, terzo lungometraggio del genietto Ari Aster, che, dopo gli horror di successo Hereditary – Le radici del male e Midsommar – Il villaggio dei dannati, ritorna in sala con una commedia grottesca, dalle derive orrorifiche, decisamente inaspettata. Se infatti in Midsommar è la commedia a infiltrarsi nel terreno ancestrale dell’horror, Beau ha paura è tutto al contrario, un film comico con estremità nette (ma impercettibili) delineate dall’horror psicologico. Ecco che quindi, e non lo diciamo noi, ma niente poco di meno che Martin Scorsese in persona, Beau ha paura consacra nel panorama cinematografico mondiale uno dei cineasti più talentuosi degli ultimi anni.

Beau (Joaquin Phoenix) deve andare a trovare la madre, Mona Wassermann (Patti LuPone), ma in un attimo di distrazione gli viene rubata la valigia e le chiavi di casa e, tanto per cambiare, nel frattempo Mona muore in un tragico incidente casalingo. Inizia così per Beau un’autentica odissea, un viaggio inconscio verso casa, il luogo che desidera e che, allo stesso tempo, teme di più. Tutto il film si basa su questo: Beau è un Ulisse disperato e indeciso, nevrotico per antonomasia, con un destino ineffabile addosso: tornare a casa per non tornare mai più. Per questo Ari Aster colleziona un film classico in tre atti (tutti ben divisi da stacchi a nero) ma che atipicamente sviscera con un distacco dalla realtà allucinogena. La trama non è quindi lineare, ma diventa un castello di carte saggiamente costruito che protende verso l’alto (potenzialmente) all’infinito.
Un visionario? Spesso, parlando di Ari Aster, si abusa di questo aggettivo per descriverlo, ma in quanto a visioni Beau ha paura non può che essere la summa estetica del suo cinema: una narrazione kaufmaniana, mista a sostanze kafkiane, ma che, registicamente parlando, raggiunge un livello di fluidità antropomorfo. Quello stesso fluido che ricorre spesso nel film (c’è acqua che scorre ovunque, anche sulla macchina da presa alle volte), il liquido amniotico primordiale, fonte battesimale sacrale. Beau nasce e muore più volte, e ogni volta esplora nuovi mondi, nuove possibilità castrate; assume sostanze stupefacenti diverse, incontra figure materne diverse (quella che ha perso suo figlio in guerra, l’altra che è incinta e così via).

La narrazione è insomma mandata avanti a tentativi, sempre monchi e falliti, di un’esistenza già amputata sul nascere. Ma, con sottile ironia, Aster usa l’acqua per costruire il mondo intorno a Beau. È l’elemento senza il quale Beau stesso non può vivere, ci ritorna sempre volente o nolente: quando sogna di essere nella vasca e la madre, fuori, che sgrida una sua versione più coraggiosa, quando deve prendere gli psicofarmaci “sempre con acqua”, quando fa il bagno a casa sua e si trova un uomo sul soffitto in procinto di cadergli addosso.
Fluido miscellaneo: Ricorda, uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai. Da dove veniamo? E dove andremo? Una cosa è certa: Beau ha paura non è da meno in fatto di tematiche, costruzione narrativa ed evasione psicologica, rispetto ai suoi predecessori. Rappresenta, infatti, il gradino finale di un trittico, iniziato con Hereditary e portato avanti da Midsommar, che si conclude in una purificazione sacrificale immersiva (la scena del processo a Beau). Non è un caso se, come affermato dallo stesso regista, i tre lungometraggi, legati tra loro dal tema dei tabù famigliari, formano una trilogia non ufficiale. Così facendo, Beau ha paura analizza prima di tutto un fatto: Ari Aster non scava solamente all’interno del proprio inconscio, ma ne vuole oltremodo sottolinearne i dettagli più grotteschi e bizzarri.

È quasi una “parodia” (sempre parole del regista), che sancisce un esorcizzare le dinamiche famigliari, uno strappo netto al cordone ombelicale. Simbolica, quanto esemplare, la scena del teatro in mezzo al bosco che incomincia con Beau che taglia di netto la catena al piede che lo tiene legato. Da quel momento in poi vive una delle sue migliori vite, l’unica – almeno – dove si sposa, fa figli e invecchia. Ma ogni cosa, a partire dalla scelta semi-sperimentale di unire animazione classica e scenografia teatrale, ci ricorda che Beau sta vivendo l’ennesima visione, questa volta in un teatro, il palcoscenico della vita. Tanto splendido quanto finto. Al contrario, rimane legato quando, a casa della coppia che lo ha curato dopo averlo investito accidentalmente, scopre di essere in qualche modo spiato e che la sua vita può essere predetta dalla televisione.
La satira di Ari Aster è così un mondo a metà tra le costruzioni di Synecdoche, New York e la distopia del Truman show, e Beau è una vittima/carnefice che tenta di costruire una speranza senza però accettare la sua traumatica (in)esistenza. La sua è un’angoscia più che giustificata, è intrappolato in un corpo che lo tiene fermamente ancorato alla sua stessa prigione. Per questo, il finale di Beau ha paura non può che essere un happy ending. È stato d’altronde detto prima: i tre lungometraggi di Ari Aster, sono lì per esorcizzare le figure parentali. Il film è il gradino finale liberatorio di un viaggio autoriale, con cui il regista ha raccontato tre storie e facendolo ha esternato le sue paure. Alla fin dei conti, se con Midsommar, Aster voleva dire “ho paura”, con Beau ha paura cerca invece di rassicurarci: “sono libero”.
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