
Corpi disobbedienti – Intervista a Extragarbo
Già segnalato da Birdmen Magazine negli scenari di un teatro a venire, Extragarbo è una creatura di confine (fra teatro e performance, fra evento e rito, fra arte e qualcosa di immensamente più grande). Nato in seno al corso di Teatro e Arti Performative dello IUAV di Venezia, prolifera nell’ecosistema lagunare con la forza e la disobbedienza di una pianta selvatica. Con alcuni dei suoi membri (al completo Est Coulon, Cosimo Ferrigolo, Gaia Ginevra Giorgi, Edoardo Lazzari, Leonardo Schifino e Theresa Maria Schlichtherle) parliamo di riti contemporanei, feste impossibili, temporalità effimere e circolari, cura come atto politico, alleanze e immaginari realizzabili per i tanti organismi che abitano il mondo dell’arte (e non solo).

I vostri progetti si strutturano su spazi e temporalità altri, che si rifanno spesso a una matrice collettiva come quella della festa, del rito o della rivolta, eventi stratificati nelle tradizioni e nelle generazioni che da questa stratificazione e ripetizione prendono il proprio senso e la propria forza. D’altronde, sono molti gli antropologi e i critici che riportano all’arte e al teatro l’eredità contemporanea di questi gesti. Come vi situate all’interno di questo confine fra creazione “tradizionale” e produzione autoriale ed effimera?
Cosimo Ferrigolo: Le nostre azioni tentano sempre di stabilire delle temporalità eccezionali, dove poter sperimentare pratiche e relazioni che coinvolgono altre persone e comunità – sempre effimere – e che si slegano dall’ordinarietà dell’esperienza quotidiana. Questo permette a noi e a chiunque partecipi di riscrivere i confini dettati dall’evento artistico e dalla sua circoscrizione all’interno della sfera sociale. La società contemporanea è segnata da una sorta di permanente stato d’eccezione, che tende sempre più a normalizzarsi. In questo senso, ri-istituire, ri-scrivere continuamente nuove micro-eccezioni è un modo per svelare l’apparato finzionale di questa normalizzazione estesa.
Gaia Ginevra Giorgi: Ciò che cerchiamo è la creazione di un tempo adatto alla sperimentazione, che sappia mantenere una tensione permanente. La nostra pratica si realizza nell’innescare un processo che possa poi procedere autonomamente, al di là del nostro controllo.
Edoardo Lazzari: Sono sempre pratiche inaugurali.
Mi chiedevo in effetti che cosa ritenete possa rimanere, quale possa essere l’eredità di queste temporalità effimere e comunità provvisorie. Penso ad esempio al vostro intervento a Santarcangelo Festival, Isole Querelas, forse la più estemporanea delle vostre azioni finora.
EL: Cosa rimane di quell’esperienza è una domanda ancora aperta. In primo luogo l’intessitura di alleanze e relazioni, che sono state un motore propulsore di quelle pratiche. In quel caso molto più che in altri, le nostre azioni erano contestuali, frutto di quel tempo specifico e del regime vigente: era la prima volta che un festival di arti performative si confrontava con i limiti imposti da una pandemia. Il solo fatto di sfidare la contingenza generando delle aperture in una struttura così rigida è stato importante.

CF: Isole Querelas è stata un’esperienza ontologicamente liminale: un intervento fuori programma, che si collocava strutturalmente ai limiti del formato festival. Se da un lato questa posizione ci offriva meno protezione, dall’altro ci concedeva una maggiore libertà. L’apice del discorso è stato raggiunto dal gesto, quasi kamikaze, di organizzare alcuni ritrovi clandestini. Istituendo canali di comunicazione alternativi e delocalizzando gli spazi deputati, è stato possibile sperimentare forme aggregative ai limiti del consentito.
Dato questo carattere sotterraneo e liminale che è una costante del vostro lavoro, che ruolo ha la costruzione della memoria? Avete mai considerato una forma di archivio?
EL: C’è un progetto che si muove in questa direzione, pensato originariamente proprio per Santarcangelo. AA.VV. Almanacco Anacronistico Varie Venture, è un archivio impossibile, luogo di ibridazioni temporali, collisioni fra passato e futuro che interrogano il tempo presente. Giocando con l’elemento memoriale del cinquantesimo anniversario del festival, intendevamo costruire un calendario parallelo a quello ufficiale, che non solo ripercorresse la storia del Festival, ma ne creasse un’altra, in un certo senso onirica.
GGG: Un calendario generativo a tutti gli effetti. Anche se non abbiamo mai riflettuto sul nostro lavoro in relazione all’archivio, il rapporto che abbiamo con la memoria è estremamente performativo, nella misura in cui si oppone alla museificazione di quello che facciamo. La metodologia che utilizziamo per processare informazioni, costruire ricordi, è sempre il dialogo. Esperienze che sono accadute prima vengono recuperate, ricontestualizzate, in una forma di nostalgia che però è sempre meccanismo progettuale, spinta verso il futuro. È come un fantasma, una sostanza effimera che viene rimessa in circolo attraverso la memoria, ri-abita gli spazi e i processi creativi senza indurre malinconia per qualcosa che non c’è.
CF: Diventa un’occasione di riscrittura e di prefigurazione. Qualcosa che ritorna e contamina il presente, e contaminandolo lo trasforma. Si genera qualcosa di costantemente rinnovato e allo stesso tempo antico.

Questo aspetto generativo della vostra pratica è fortemente radicato anche nella consapevolezza dei meccanismi in cui avviene e nella volontà di modificarli. Penso ad esempio al vostro intervento a Winter is Locking Down, l’edizione invernale di Santarcangelo.
GGG: Extragarbo avrebbe dovuto parteciparvi insieme a molti altri gruppi giovani e indipendenti, con due progetti, Call Monica e Rovinati. Nel momento in cui è stato chiaro che non sarebbe stato possibile tenere il festival in presenza, è sorto il desiderio di utilizzare questo momento per interrogare un meccanismo che rischiava di ridursi ad una spettacolarizzazione a tutti i costi. Sentivamo il bisogno di un’occasione di riflessione e di creazione di alleanze. Quindi, anziché parlare di noi e del nostro progetto, avremmo preferito partecipare a un momento di scambio in cui confrontarci sui meccanismi in atto; favorire la creazione di una rete mutualistica mettendo in comune risorse e competenze. Nonostante moltə fossero d’accordo con noi, siamo statə lə unicə a portare avanti questa posizione. Come Call Monica abbiamo quindi deciso di proiettare sullo schermo il nostro manifesto. Inizialmente si è creato un po’ il gelo, ma è stato poi funzionale al momento collettivo che ne è seguito e che è stato inserito proprio grazie a questo gesto.
Cosa è emerso da questo momento?
GGG: Penso che questo abbia attivato una serie di forti alleanze e riconoscimenti. Naturalmente con queste distanze è difficile fare un bilancio. Forse quest’estate, se davvero si potrà tenere il festival e potremo essere là, con i nostri corpi in mezzo ad altri corpi, avremo la possibilità di misurare la portata di quanto avvenuto e portare avanti un discorso comune.
Parli di stare con i vostri corpi “in mezzo a questi altri corpi”. Il corpo è una questione centrale nel vostro lavoro, sia nella sua presenza come entità performativa, sia come entità teorica, spazio di esplorazione, di discussione e incontro. Cosa ha significato per voi questo anno di distanziamento forzato, di virtualizzazione dei corpi?
CF: Per noi ha significato soprattutto riflettere sulle possibilità del locale come territorio scelto. Abbiamo cercato di capire davvero chi fossero lə nostrə vicinə, di rinsaldare le alleanze, di cominciare a progettare insieme, sempre nella convinzione che la presa in cura sia un atto politico che si radica nell’ambiente. Da questo periodo è nato Disabitare, una piattaforma collettiva a cui stiamo dando vita insieme a tutta una serie di realtà associative veneziane e con cui stiamo provando a fare fronte comune rispetto a delle istanze cittadine da rivendicare: la possibilità di costruire un sistema ecologico basato sul mutualismo, lo sviluppo di un pensiero trasformativo sullo spazio pubblico, l’elaborazione di un discorso critico rispetto alle politiche dei bandi pubblici e alle politiche culturali della città.

È interessante come questo momento che è stato vissuto da molti, me compresa, come un momento di negoziazione con spazi virtuali, impalpabili, spesso alienanti, abbia significato per voi un ritornare al qui e ora nel suo senso più stretto.
CF: Venezia è una città particolare in questo senso, che sfugge alla standardizzazione metropolitana di molti grandi centri. La sparizione del turismo di massa è stata come il ritirarsi di un’alta marea che ha reso più evidenti le realtà locali, prima meno visibili. Venezia, forse per sua stessa conformazione, riflette le logiche degli ecosistemi naturali che incorpora ed è molto esposta ai mutamenti.
GGG: Qui è impossibile non relazionarsi con lo spazio che si abita e con chi lo abita. Gli spostamenti a piedi allargano le maglie del tempo, favorendo incontri inattesi.
Le alleanze che avete stretto durante questo periodo cambieranno quello che sarà Extragarbo?
CF: Ci aiuteranno, ci aiuteremo reciprocamente. Crediamo molto nelle possibilità che nascono dalla collaborazione e dall’incontro con realtà diverse da noi. Sicuramente sentiamo una grande partecipazione e vicinanza; questo fa bene a noi e nutre la città.
Interrogatə su quale sarà la forma di Extragarbo fra dieci anni, rispondono: un coltivatore di muffe spontanee (Cosimo), una lavatrice di gatti (Gaia), un impiegato al catasto lunare grazie all’invalidità (Edoardo), domatrice di brasati bavaresi (Theresa), capo di gabinetto alle pari opportunità (Est), disperso (Leonardo).
Insomma come furetti transatlantici che fluttuano in obliquo nel vischioso mare d’Oriente.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
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