
Più Liberi Più Liberi 2021 | Riccardo Falcinelli su luce e ombra
Riccardo Falcinelli è una delle figure chiave del mondo del design italiano contemporaneo: forte di una formazione internazionale, ha collaborato alla realizzazione delle copertine di alcune delle più importanti case editrici italiane, e ha a sua volta pubblicato due bestseller di saggistica per l’Einaudi, Cromorama e il più recente Figure. In occasione della nuova edizione della Fiera della Piccola e Media Editoria Più Libri Più Liberi, Falcinelli assieme ad altri ospiti è stato invitato a parlare di un libro che lo ha “liberato”, e la sua scelta è caduta su Il libro dell’ombra dello scrittore giapponese Jun’ichuro Tanizaki – da non confondersi con il più noto Elogio dell’ombra di Borges -, un saggio di estetica datato 1933 e portato in Italia dalla Bompiani. In realtà, come lasciavano prevedere già le prime battute del talk, il richiamo al libro di Tanizaki non era da parte di Falcinelli solo un modo per fare conoscere a un pubblico italiano un testo poco noto al di fuori del settore. Verrebbe da dire che è stato un pretesto per tracciare una contrapposizione tra l’estetica giapponese e quella occidentale, fino a mettere in discussione il nostro stesso modo di vedere le cose.

Concepita come “una difesa pacata della civiltà orientale” in un momento in cui il Giappone iniziava a relazionarsi con l’Occidente, Il libro d’ombra di Tanizaki mirava a evidenziare come fra tutti i sensi l’Occidente ha sempre privilegiato la vista, senso da cui è partito per operare una vera e propria “geometrizzazione dell’esperienza” svalutando però tutte le altre sensazioni; l’Oriente ha dato prova di maggiore equilibrio ed armonia, come dimostrano anche banalmente le case giapponesi e la presenza in essi delle tradizionali tokonoma, delle rientranze nelle pareti che generano delicati coni d’ombra.
«V’è forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione… Al contrario, l’Occidentale… è passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima particella d’ombra».

Partendo dal tradizionale inchino giapponese, e dalla fotografia di un tempio nipponico risalente al XVIII secolo ma custodito al Metropolitan di New York, il discorso di Falcinelli trovava un primo punto fermo nella constatazione che i giapponesi conducono un’intera vita caratterizzata da rituali di vario genere “perché il rituale permette di arrivare al fondo di qualunque cosa si sta facendo”. Questa volontà di arrivare al fondo delle cose si oppone alla preferenza tutta occidentale per la superficie delle cose, per la loro “levigatezza”, come direbbe il filosofo Byung-chul Han – e da questo sgorga anche l’onnipresenza della luce elettrica, artificiale, nelle nostre case. Nel Libro d’ombra Tanizaki evidenziava proprio come l’elettricità rappresenta un tipo di illuminazione standard rispetto alla luce del passato; questo è un problema nei musei, perché non tutta l’arte è stata concepita per essere vista sotto una luce regolare, e lo stesso tempietto custodito al Metropolitan appare molto diverso se illuminato dal neon, come è adesso, piuttosto che da una candela. Guardare uno dei suoi pannelli senza la luce giusta fa perdere una parte importante esperienza estetica: ma la stessa arte occidentale, in primis l’arte sacra custodita nelle chiese, era originariamente concepita per essere vista sotto una luce intermittente, come quella delle candele. Da qui il termine sfavillare, che non evidenzia solo lo splendore della luce, ma anche il suo essere palpitante, “il tremolio dell’essere luminoso” in cui nei secoli passati poteva apparire, per dire, un quadro di Caravaggio già di suo caratterizzato da forti contrasti di luce. Questa constatazione, da sola, basta secondo Falcinelli a “relativizzare la nostra esperienza estetica”, dal momento che tutta la storia dell’arte come noi la conosciamo è passata attraverso una standardizzazione luminosa rispetto ai canoni visivi del passato.

Dopo questa prima parte del discorso, Falcinelli fa un passo indietro, ricordando due miti fondativi dell’arte occidentale: da una parte, il mito della caverna di Platone, secondo cui quello che noi vediamo della realtà è l’ombra di un’Idea che sta da un’altra parte ma che noi, imprigionati, non riusciamo ad attingere; dall’altro lato il racconto, tramandato da Plinio, della ragazza di Corinto che, non potendo sopportare la partenza del fidanzato per un lungo viaggio, ne disegnò il profilo su un muro aiutandosi con la sua ombra. Secondo Falcinelli, fino al Quattrocento l’arte occidentale aveva anch’essa un legame con l’ombra: poi subentrò il gusto dell’umanesimo, esemplificato da Leonardo Da Vinci che consigliava di ambientare i quadri sempre con il brutto tempo, perché secondo lui “non c’era nulla di più brutto delle ombre incise del sole di mezzogiorno”. Con l’ulteriore evolversi dell’arte occidentale, subentrò la tecnica della prospettiva, secondo Falcinelli anch’essa responsabile di ridurre l’ombra ad accidente. “In Occidente, dopo il Rinascimento, l’ombra è una sagoma: contribuisce a definire la forma delle cose, ma non appartiene alle cose, è un’aggiunta successiva“, tanto che si suggerisce di disegnarla in un secondo momento rispetto al soggetto principale di un quadro. L’ombra è quel qualcosa che dà tridimensionalità alle rappresentazioni, in quanto elemento illusionistico. Da Caravaggio ai trompe l’oeil, le ombre assumono un andamento geometrico: sono sagome, appunto, e “nascono da una mentalità che funziona con la riga ed il compasso”.

Contrariamente a quanto avviene nell’architettura domestica, nella pittura tradizionale giapponese le ombre non esistono – questo è uno degli aspetti che più stupirono gli artisti occidentali nell’Ottocento, quando entrarono in contatto con le “stampe” di matrice nipponica. Nella concezione classica dell’arte giapponese, le ombre riguardano gli spazi, non i corpi – l’ombra non è una proprietà dei corpi, bensì una proprietà della stanza, il che si riallaccia a quanto già detto sugli interni delle case nipponiche.
Questo differente atteggiamento, quasi a chiasmo, nei confronti dell’ombra che separa l’estetica occidentale dal modo di fare arte giapponese e in generale orientale si riverbera anche nel rispettivo modo di fare Cinema, a cui era dedicata la terza e ultima parte del discorso di Falcinelli – tanto più che la traduzione letterale dell’ideogramma giapponese corrispondente a “cinema” è ombre elettriche. Confrontando un primo piano di un’attrice americana come Greta Garbo e di un’altra star nipponica, Falcinelli evidenzia come il viso della Garbo mostrava le ombre schiarite, ben “appoggiate” sul volto per far risaltare la bellezza dell’attrice, laddove la donna giapponese di fatto non aveva proprio ombre all’altezza del viso, perché si concentravano tutte sullo sfondo, a caratterizzare l’ambiente. In Occidente il discorso delle ombre assume particolare importanza nel genere horror, da Frankenstein a Dracula a Gaslight, una pellicola del 1944 che in qualche modo voleva esorcizzare la paura della luce a gas come simbolo di modernità e di pericolo.
A partire dall’anno successivo, dal 1945 del primo Mildred Pierce, le ombre di taglio che finiscono sul volto degli attori diventano una costante nel cinema occidentale, a cui continua a contrapporsi una sostanziale assenza di chiaroscuri nel cinema giapponese, almeno per quanto riguarda i volti e i corpi degli interpreti. Un’ombra sul volto del protagonista conferisce qualcosa di tagliente, di feroce, nella rappresentazione del suo personaggio. Da questo momento in avanti, il cinema non si limita ad essere influenzato, ma influenza a sua volta la pittura: nei quadri di Edward Hopper “lo scambio col cinema è continuo”, proprio nell’uso delle luci di taglio, nella violenza di un’ombra che, a lungo “rimossa” o estremizzata a livello estetico, adesso fa sentire la sua violenza emotiva, la sua capacità di mettere in dubbio le forme.

Il discorso portato avanti da Falcinelli in poco più di un’ora di talk è ambizioso, e apre più interrogativi di quanti ne risolve. Consapevolmente, da un elemento relativamente secondario della pratica estetica dei due paesi lascia scorgere la possibilità di un confronto – antitetico – tra le due civiltà. Non è solo in gioco il diverso rapporto con l’arte che un occidentale e un orientale possono avere: è in gioco in rapporto con la visione e la percezione, in un certo senso sono concretamente posti a confronto due diversi modi di vivere la vita. Falcinelli non porta fino in fondo questo contrasto, sia perché sarebbe inutile porre la questione nei termini di uno scontro ideale di civiltà, sia perché sarebbe verosimilmente troppo ambizioso decostruire e interpretare due macroidee come l’Oriente e l’Occidente in un talk non molto più lungo di un TED. Falcinelli però i termini per instaurare questo confronto almeno su un piano estetico li mette tutti, e quel che implicitamente ne deriva è una curiosa forma di epistemologia comparata. Non è in gioco soltanto il rapporto del singolo uomo, occidentale od orientale che sia, con l’arte: è in gioco il suo rapporto con la verità.
Con la luce standardizzata a cui siamo abituati in Occidente possiamo vedere “tutto”. Ma siamo veramente interessati a questa possibilità? In realtà, nelle omissioni e nei chiaroscuri si trova “l’essenza del dipinto”, conclude Falcinelli. Un genere pulsionale e atavico come l’horror mette in scena questo paradigma, questo possibile pregiudizio occidentale secondo cui dietro ogni ombra è possibile che si nasconda il Male, l’orrore. Più subdolamente, l’arte, l’architettura e il design orientale mostrano che le ombre di circondano e dialogano fruttuosamente con lo spazio in cui viviamo, fino ad essere, forse, anche dentro di noi.
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In copertina: grafica di Più Libri Più Liberi con foto di Giulia Natalia Comito per Artribune
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