
Il Teatro della Tosse parla una lingua comprensibile: intervista a Romeo e Petrillo
Una finestra sul mondo nel cuore di Genova: così si auto presenta il Teatro della Tosse, importante realtà culturale genovese nata nel 1975 dall’iniziativa di Aldo Trionfo, Emanuele Luzzati, Tonino Conte e altre personalità del mondo del teatro. Unica realtà ligure (insieme al Teatro Nazionale di Genova) ad essere stata riconosciuta dal Ministero dei Beni Culturali “Teatro di Rilevante Interesse Culturale” la Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse propone ogni anno una programmazione che si distingue per scelte non convenzionali. Amedeo Romeo – direttore artistico – e Marina Petrillo raccontano come nasce e si concretizza la volontà di porre al centro l’incontro e il dialogo favorendo una dinamica di confronto tra le arti performative.
Nel 2018 la Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse propone una stagione intitolata PRESENTE che comprende allestimenti molto eterogenei: drammaturgia contemporanea, teatro fisico e visivo, grandi produzioni internazionali, rassegne di danza e musica contemporanea. Come si sviluppa la ricerca artistica su cui si basa questa proposta?
Marina: In un momento in cui il teatro sembra essere marginale rispetto alla quotidianità delle persone noi crediamo che il teatro sia una materia molto viva, anzi più viva che mai, ma la complessità dei linguaggi contemporanei è tale che si sente la necessità di ricreare una lingua nuova per riportare il teatro alla contemporaneità.
Amedeo: Portare in scena un autore contemporaneo non significa automaticamente essere contemporanei; bisogna domandarsi quali sono i linguaggi del contemporaneo. Sicuramente il linguaggio teatrale contemporaneo non è quello che si costruisce sulla parola nei confronti della quale c’è un pregiudizio che genera fraintendimento: quando fai uno spettacolo molto spesso chi guarda vuole capire ciò che viene detto e non si predispone altrettanto all’ascolto attraverso gli altri sensi; questo rischia di essere un limite perché non necessariamente attraverso il significato delle parole si arriva a un contenuto. Non dobbiamo dimenticare che anzitutto siamo nel presente dei linguaggi.

Questa specifica ricerca di linguaggi contemporanei in che modo ridefinisce la scelta dei contenuti e del temi trattati?
Amedeo: Ripensare i contenuti non significa andare a cercare qualcosa di nuovo, ma essere in ascolto di ciò che riguarda la comunità; nel 2018 abbiamo lavorato concentrandoci su temi centrali del nostro quotidiano che variavano dall’adolescenza, al terrore, ai diritti civili perché inevitabilmente le proposte che ci arrivano sono quelle che riguardano la collettività. Quando un progetto ha un valore esclusivamente autoreferenziale – e quindi non parla nel presente, ma risponde a un bisogno personale (anche in qualche modo egocentrico) di andare sulla scena – lo senti subito ed è a questo tipo di teatro auto riferito che chiudiamo le porte perché non parla ampiamente alla comunità.
Marina: Il tentativo di chi – come noi – lavora con diversi linguaggi che sono strumenti di comprensione della realtà dovrebbe essere anche riuscire a creare nell’osservatore un senso critico e per questo è indispensabile il confronto con il territorio e le sue esigenze.

Dati questi presupposti come si struttura concretamente la vostra programmazione?
Amedeo: La nostra programmazione segue due linee guida: ospitiamo prevalentemente spettacoli di drammaturgia italiana contemporanea e – per quanto riguarda l’aspetto della produzione – ricerchiamo un teatro molto visivo che trascende la parola in modo tale da andare incontro al pubblico rendendo possibile una fruizione più attiva. La scelta della drammaturgia (preferibilmente giovane) italiana è importante e naturalmente non per una forma di nazionalismo – non si tratta di difendere la lingua: abbiamo parlato finora della nostra ricerca della non-parola – ma perché la drammaturgia che arriva in tutto il mondo è fortemente influenzata dal mondo anglosassone.
Marina: Scegliere la drammaturgia italiana contemporanea significa pensare a qualcosa che ci circonda veramente; in questo senso la drammaturgia anglosassone è diventata un problema da un certo punto di vista perché parla di una realtà che non corrisponde affatto alla quotidianità delle persone nella nostra dimensione socio culturale e noi, invece, vorremmo che il teatro parlasse a chi lo va a vedere. Anche per questo motivo ospitiamo sempre compagnie che si propongono di trovare modi diversi per entrare in contatto con le persone. L’obiettivo è in qualche maniera superare la barriera della lingua esplorando un universo più immaginifico perché nella contemporaneità la parola difficilmente ha la stessa potenza dell’immagine.

Per quale motivo Il Teatro della Tosse propone una stagione che segue l’anno solare anziché il classico modello di programmazione da ottobre a giugno?
Amedeo: Perché banalmente abbiamo un’ attività estiva molto intensa quindi non si crea uno stop a giugno. In questo modo abbiamo anche la possibilità di programmare per blocchi più brevi. La modalità di programmazione poi è molto soggettiva perché dipende da come lavori; per noi adesso l’ideale è poter lavorare agilmente su progetti a breve termine perché ogni volta che lavoriamo aggiungiamo delle parti e così abbiamo maggiore flessibilità.
Marina: Idealmente vorremmo avere un’idea base di un progetto ampio e che possa avere addirittura un respiro triennale e poi darci la possibilità di intervenire di tre mesi in tre mesi. La volontà di tenere aperte delle possibilità non è soltanto una questione di contenuti, bisogna anche tener conto delle letture del mondo che cambiano in base a ciò che succede e che non possiamo ignorare. Perché il legame con il territorio sia reale dobbiamo farci carico di determinate istanze in maniera tale da lavorare sul segno che gli avvenimenti lasciano.

Il Teatro della Tosse è tradizionalmente una realtà attenta alla comunità di cui fa parte, al territorio e al pubblico giovane. Che cosa comporta avere priorità di questo tipo?
Amedeo: In ogni caso rispondi ad una comunità altrimenti diventi inevitabilmente ripetitivo e autoreferenziale. Noi spesso ci confrontiamo con persone che appartengono alla fascia d’età degli studenti per capire perché non vanno a teatro e la motivazione che ci viene data è “Non capisco: mi sento stupido, mi sembra che tutti capiscano tranne me e mi sento estraneo.” E’ esattamente questo contro cui noi dobbiamo combattere: se tu ti senti estraneo e stupido non stiamo facendo nessuna comunicazione nei tuoi confronti, siamo una comunità chiusa e stiamo sbagliando. Dobbiamo metterci in ascolto dello spettatore riflettendo su cosa fare affinché il messaggio arrivi senza che si senta estraneo, altrimenti compiamo un’azione inutile.
C’è una difficoltà a fare in modo che il contemporaneo arrivi al pubblico (non solo in teatro) dovuta al fatto che si sente il bisogno di piacere al critico anziché al pubblico. Noi stessi ci diciamo spesso che non siamo spettatori qualunque, non possiamo programmare solo ciò che ci piace perché dopo trent’anni anni che vedi più di cinquanta spettacoli a stagione, non hai più voglia di proporre tante cose che per gli spettatori sarebbero interessanti, invece è importante che uno spettacolo sia riprogrammato, rivisto e riletto insieme al pubblico.
Marina: Dal punto di vista storico il teatro è sempre stato una comunità in qualche modo ristretta costituita da gruppi di persone che lavoravano in una comunità e all’interno della quale elaboravano delle strategie di sopravvivenza. La grande separazione nasce nel momento in cui inizia a esserci un teatro che abdica alla sua funzione sociale – che è anche quella più banale di intrattenimento – e diventa esclusivamente accademia altamente specializzata. Se Peter Brook – che è un grande sperimentatore – arriva a togliere tutto per ritornare alla base della narrazione probabilmente è perché tutte le evoluzioni-involuzioni sono superflue e il teatro potrebbe utilizzare un linguaggio molto semplice.
Non lo sappiamo, ma lo auspichiamo perché ci accorgiamo che il teatro parla ancora alla gente. Anzi parla anche al di là di quello che le persone comprendono perché a volte siamo talmente abituati ad avere una sovrabbondanza di segni e stimoli esterni da restare un po’ disorientati; ciò che colpisce a livello emotivo di uno spettacolo è difficile da comprendere perché il teatro è talmente una materia viva da essere imprevedibile e non classificabile. Non a caso stiamo pensando di intitolare la stagione del 2019 «DAL VIVO». Noi cerchiamo di agire al meglio anche rispetto al contesto, ricordandoci chi siamo, quali sono le ragioni per cui facciamo questo mestiere e come siamo cresciuti con esso perché c’è una storia che non possiamo ignorare. E la storia dice che questo è un teatro che ha sempre voluto parlare una lingua comprensibile.
Per conoscere l’intera stagione proposta dal Teatro della Tosse clicca qui.
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