
La lingua del dolore: Babel
Si è conclusa giovedì la rassegna di Radio Aut relativa alla cosiddetta “Trilogia sulla morte” di Alejandro González Iñárritu, consegnando ai nostri palati quel senso di sazietà ancora latente che tende a caratterizzare il finale di molte esperienze. Un titolo conclusivo come Babel (2006), poi, non poteva che enfatizzare un simile effetto, rilasciandoci nella nebbia e nell’umidità pavese carichi di un misto di malinconia, stordimento e contemplazione; nonché, nel mio personale e opinionatissimo caso, di una certa dose di sonno arretrato da recuperare.
Possibile si possa parlare di moderna catarsi?
Senza la parte sul sonno, va da sé.
Limitato l’obiettivo della sua cinepresa alla sola Città del Messico in Amores perros (2000) e allargato il focus con un’America dalle parvenze volutamente sfocate in 21 grammi (2003), Iñárritu compie un passo più lungo nel concludere la trilogia: la Babel del titolo è prima di tutto un crocevia di lingue, di costumi e di valori, attirati da un inusuale centro di gravità o invero dalla proverbiale torre (un semplice fucile a otturatore, emblema di morte umile ma infallibilmente preciso) a prescindere dalla loro distanza fisica. America, Messico, Marocco e Giappone convergono gli uni sugli altri nel delineare una storia in cui le etnie sono diverse, ma la sofferenza umana è sempre la stessa.
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L’articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2016 sul sito http://inchiostro.unipv.it/
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