
Bardo, la cronaca falsa di alcune verità – Se il cinema ama il cinema | Venezia 79
Succede spesso che il cinema trovi modo di attorcigliarsi come una pianta di rovi intorno al proprio asse. La Settima Arte, così come buona parte dei prodotti artistici realizzati nella macro-area dell’audiovisivo, nasce da una evidente mediazione meccanica – poi digitale – dello sguardo umano; di fronte allo schermo cinematografico lo spettatore assiste a una rappresentazione di secondo grado che, in maniera più o meno velata, pone l’accento sulla natura finzionale della propria esistenza – o, in altri casi, sulla scelta precisa di un posizionamento dell’occhio-macchina da parte di chi registra il video; posizionamento che, in seguito, viene irrimediabilmente imposto sullo spettatore.
Bardo, la cronaca falsa di alcune verità, ultimo (per ora) tassello del percorso cinematografico di Alejandro González Iñárritu, ricade nella categoria descritta: a partire da questi spunti, è possibile intuire i contorni del quarto film proiettato in Concorso quest’anno.

È un sogno ma è la realtà, che però è falsa. È la realtà ma è un sogno, che però è falso. Il racconto della vita di Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho) – protagonista, giornalista e documentarista messicano dietro cui si nasconde lo spettro identificativo di Iñárritu – è il risultato di un meccanismo ciclico di indizio, constatazione e smentita, che trova nella mistificazione il proprio baricentro narrativo. Silverio è messicano, ma è anche americano; Silverio è un uomo integro, ma si è anche venduto al capitalismo; Silverio è un padre assente, ma è anche un genitore affettuoso: ciascuna di queste affermazioni è vera soltanto nel breve arco di tempo in cui viene mostrata sullo schermo, finché sullo stesso schermo non verrà mostrato il suo opposto. Com’è possibile, allora, orientarsi fra le contraddizioni cui si viene sottoposti? La risposta è relativamente semplice: applicando allo spirito contraddittorio del film (onirico, allucinatorio, tragicomico) gli stessi filtri che utilizziamo per interpretare le verità polverizzate del mondo contemporaneo, che si manifestano secondo principi non del tutto dissimili. Seguendo la vicenda di Silverio, infatti, Iñárritu percorre come in una sottile bolla metaforica la propria stessa storia, rinascendo nel corpo di un giornalista ormai famoso che si trova nella condizione di dover accettare un premio ambìto, ma consegnatogli da un Paese che non è il suo – e che, anzi, ha sempre ricoperto nei suoi confronti un ruolo economico e politico di stampo “paternalistico”.

Al tema caro al regista del conflitto culturale tra Messico e Stati Uniti si sovrappongono, poi, ghirlande di simboli e spunti narrativi incatenati fra loro: dal tema dell’infanzia a quello dell’invecchiamento, dalla riflessione metacinematografica a quella sul colonialismo, dall’ipertrofia delle über-corporation industriali ai legami religiosi di origine indios con la terra che viene calpestata dai personaggi. A partire dall’anniversario del 175esimo anno dalla guerra messicano-statunitense, Iñárritu tesse le fila di una storia che ha l’ambizione (smentita a più riprese, secondo la logica della contraddizione) di concentrare in una stanza le tensioni pluri-secolari di un intero popolo, accorciando le distanze tra il nuovo millennio degli studios televisivi e cinematografici, il sangue versato dai conquistadores e i traumi dittatoriali del Messico. Silverio Gama è il fantasma che si trova al centro del crocevia di questi strati temporali: confondendo la veglia col sogno e viceversa, così come la realtà con l’allucinazione – e, in ultima analisi, la vita con la morte – il regista-protagonista riesce a volgere una domanda accusatoria al mondo reale, quello oltre lo schermo; una domanda formulata tramite l’accumulo di suggestioni e conflittualità, che risulta in un’intervista rivolta verso l’angelo putrefatto della Storia e il suo triste strascico.

In una realtà parallela (o forse no?), quella in cui vivono Silverio, la sua famiglia e i suoi amici, dove Amazon acquista parte della costa messicana per attuare «politiche di integrazione economica» e il surrealismo sembra regnare sovrano, emergono connessioni inaspettate fra Hernán Cortés e il poeta Octavio Paz – così come viene analizzato nelle sue minime sfaccettature il mondo dello spettacolo audiovisivo e le sue macchinazioni segrete.
In questo insieme d’impatto della durata di tre ore circa, quasi annichilente nei confronti di chi guarda, sono riassumibili tutte le risate amare e commosse che Bardo suscita nello spettatore: la conferma che il cinema, anche quando ambizioso fino all’eccesso e visivamente fastoso, possiede la capacità archetipica di narrare il mondo senza affondare con esso – e che la sala cinematografica, quando illuminata da storie che le rivolgono in maniera diretta dei sentimenti forti, è ancora più bella da vedere piena e silenziosa.
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